Chi scrive non aveva mai sentito nominare Patricia Taxxon prima di questo Bicycle. Perciò chi scrive, sempre la stessa persona, non poteva immaginare che un’artista classe 2000 avesse, dal 2016 a oggi, pubblicato ben 66 album (sì: 66, avete letto bene; roba da far girare la testa). Ancora chi scrive mentirebbe se dicesse che ha avuto modo, in questi giorni, di recuperare qualcosa all’interno di una tale sterminata produzione – non l’ha fatto. Però è ben lieto di essere inciampato in quest’ultima uscita, compatta e ispiratissima, che apre le grandi braccia a un ’24 speriamo pari a un inopinatamente ottimo ’23.
Da Santa Cruz, in California, la compositrice mette in fila otto riuscitissimi pezzi IDM con identità e umori forti e cangianti, facendo del drum programming e dell’atmosfera trasognatamente estiva il proprio punto di forza. L’avvio è affidato ai microbeat di Furry e alla sua anima vagamente vaporosa, spazzata via immediatamente dopo dai poderosissimi cinque minuti di Boys: una cavalcata à la Jon Hopkins di invidiabile intensità. Lo scherzo retrogaming di Cavalry, col suo intervento canoro un po’ Gavin Bryar-esco, cede il passo agli orientalismi di Frat Claws prima e al noir downtempo di Chipshop a seguire.
Il crescendo finale sull’ambient della dolce Brotherhood è un preludio ai sedici giri di orologio conclusivi, tra il sapore chiaramente DFA/90s di Big Wheel e l’incredibile I Do: minimal techno immersa in salsa dreamy, chiusura col botto per un disco completamente inatteso ma tutt’altro che inattendibile. Bisognerà, certo di buona lena e con qualche giorno di ferie a disposizione, mettersi seduti per studiare almeno una piccola parte dell’opera di questa giovanissima artista. Per stabilire se non altro se “Bicycle” sia, anche se dopotutto non si può dire “soltanto”, una luce improvvisa – come lo è conoscersi in quella poesia di Salinas.
2024 | Autoprodotto
IN BREVE: 4/5