Oggi può sembrare strano, ma cinquant’anni fa leggere una recensione entusiastica sui Beatles da parte della stampa musicale era cosa assai rara. Per i critici più blasonati, ascoltare il quartetto di Liverpool era quello che oggi chiameremmo un guilty pleasure. Si pensi a un articolo apparso sul Times nel 1963, in cui William Mann, studioso di Strauss, definì Lennon e McCartney giovani e talentuosi musicisti in grado di creare armonie colte, ma preferì restare anonimo probabilmente per non intaccare la sua autorevolezza da giornalista e cultore di musica classica. Se possibile, il rapporto tra la stampa accreditata e la carriera di Paul McCartney da solista fu anche peggiore. “McCartney” (1970) e “McCartney II” (1980) avevano in comune tre costanti: scrittura ed esecuzione ad opera del solo artista britannico, una genesi scaturita dai due divorzi professionali (dai Beatles il primo e dai Wings il secondo) e, infine, un’accoglienza meno che tiepida da parte dei media.
Oggi l’idea che i critici avevano di entrambi gli album è diametralmente opposta, ma anche qualora questo non fosse mai accaduto, trascorsi cinquant’anni dal suo debutto, McCartney è troppo esperto, ricco e vecchio per comporre qualcosa pensando a come verrà accolto dai media. McCartney III vede la luce senza essere preceduto da alcun fallimento professionale o personale e, soprattutto, accompagnato da quell’aura di autorità stilistica ormai indiscussa, portandosi dietro solo una delle tre costanti cui si accennava prima. Rintanato nella sua fattoria dell’East Sussex e con in mano chitarre elettriche e acustiche, batteria, percussioni, un pianoforte, un basso, un contrabbasso e un clavicembalo, McCartney si siede e gioca come un bambino alle prime armi. Che poi, si sa l’atto del giocare non è mai fine a se stesso e, nel caso dell’artista britannico, quel tentativo di impiegare le giornate in tempo di pandemia si trasforma nell’ultima parte di una trilogia iniziata cinquant’anni fa, quando era meno che trentenne.
Long Tailed Winter Bird, che sembra buttata giù così giusto per accordare la chitarra, apre un album che sfrutta il vissuto del suo autore e dei suoi strumenti (il contrabbasso che fu di Bill Black, il basso Hofner che non necessita di spiegazioni) per costruire undici tracce, tra le quali alcune talmente semplici da sembrare ordinarie ma contraddistinte pur sempre da un groove eccezionale (Find My Way, Seize The Day). Deep Deep Feeling non rientra di certo tra queste: i suoi otto minuti di melodie intrecciate a lunghi passaggi strumentali, voci in falsetto, cambi di tempo e un mellotron che ricorda l’apertura di “Strawberry Fields Forever” la ricoprono di un’aura all’altezza dello status di McCartney. Ci sono pezzi che più di altri riportano inevitabilmente a radici leggendarie, così è per The Kiss Of Venus o per Winter Bird / When Winter Comes, completamento di una registrazione in co-produzione con George Martin rimasta incompiuta dal 1992.
A voler fare un (inutile) parallelo, “McCartney III” è molto più strutturato di “McCartney” e notevolmente meno sperimentale di “McCartney II”, e di sicuro non rientra tra le migliori composizioni dell’artista. Per molti versi, è un tipico album di McCartney, con interessanti diversivi, episodi irregolari, alcune buone tracce, altre poco più che ordinarie e altre ancora evitabile. Potremmo collocarlo un gradino sotto “Egypt Station” (2018), privo di memorabilia ma con una discreta manciata di pezzi sopra la media. Sir Paul McCartney non ha grandi aspettative da soddisfare, se non le sue. Ritrovarlo, alla fine di un anno come questo sarà sempre e comunque un’ottima notizia.
(2020, Capitol)
01 Long Tailed Winter Bird
02 Find My Way
03 Pretty Boys
04 Women And Wives
05 Lavatory Lil
06 Deep Deep Feeling
07 Slidin’
08 The Kiss Of Venus
09 Seize The Day
10 Deep Down
11 Winter Bird / When Winter Comes
IN BREVE: 3/5