Quanto siamo miseri quando cerchiamo in una canzone una risposta di vita. Un esercizio inutile. Anche chi vi scrive, sia chiaro, è spesso un misero e cronico peccatore in questo senso, soprattutto poi quando si parla dei Pearl Jam. Eddie Vedder è stato un riferimento per gli adolescenti della metà dei Novanta e gli Altri, specie di famiglia a distanza. “Quale il disagio?”. Cerchiamolo nelle parole di “Black”. “Che succede con quel matto di Bush?”. Beh, chiediamolo ai Pearl Jam. “Come sta Eddie?”. S’è fatta la cresta moicana, è incazzato, tutti dovremmo esserlo.
Oggi i Pearl Jam sono dei quasi cinquantenni con chilometri di tour alle spalle e ville kitch da mantenere. Sono ottimi professionisti della musica internazionale, invidiabili nel loro ambito. Sono tecnici del rock americano, artisti inappuntabili. Ma non possono essere più il riferimento di una generazione. Questo lunghissimo incipit per dire che se Lightning Bolt, decimo disco dei Nostri, vi deluderà, non fategliene una colpa, non prendetela sul personale, non mandate tutto all’aria. Cercate le storture altrove, non qui.
“Lightning Bolt” è un disco senile, un album che non contiene neanche un grammo di protesta / urgenza / passione / delusione / amore / rabbia. Insomma, non contiene quella polpa strana, forse rossa, forse nera, che rende il rock inclassificabile e tavolozza perfetta di una stagione. E allora cosa sprigiona questo lampo luminoso? Appunto, un lampo ma senza tuono. Un mucchio di brani pieni di buone intenzioni, di divertimento, di comode session pomeridiane tra un figlio che esce da scuola e un salto al supermercato.
Il tritato di chitarre di McCready in pezzi come My Father’s Son o Gateway va quindi preso per quello che è. Pendulum e Future Days sono ballate che già conosciamo, Infallible e Let The Record Play sono come quel caffè annacquato che proprio non ti va giù. Poi c’è Sirens ed Eddie dice: «so che nulla dura per sempre / ma tutte le cose cambiano, facciamo che questa resti», ed è lì che viene da rimbalzargli addosso le sue stesse parole alla ricerca di un succo che non c’è più o che magari ha cambiato sapore.
Oppure c’è Mind Your Manners (l’altro singolo dell’album) in cui è lo stesso Vedder ad ammettere di avere «una brutta sensazione» quella di «essere stato abbattuto» in un momento in cui forse ce lo aspettavamo. E potrei ancora scrivere della voce di Ed sempre calda anche se decisamente molto più stanca del solito. Potrei scrivere dell’impasto sonoro spesso fastidiosamente ovattato e rotondo, guscio liscio e chiarissimo con la metrica di Cameron mai così prevedibile e dettata e le melodie dei Nostri mai così tanto pari, matematicamente pop, idillio per gli amanti delle battute perfettamente in schema. Potrei scrivere di una copertina (e di un artwork) che è talmente brutta da non crederci. Potrei scrivere di aver rimesso ogni speranza nella drakeana Yellow Moon o nella REMiana Swallowed Whole per poi riflettere che stiamo parlando dei Pearl Jam e quei riferimenti non sarebbero mai serviti in passato.
Tanto si potrebbe ancora scrivere e dibattere su “Lightning Bolt” facendo detonare la delusione nelle pareti delle nostre stanze, ma stavolta non voglio fare la fine di quei miseri che cercano in un disco una risposta di vita. E quindi mi tengo l’amaro in bocca per qualcos’altro.
(2013, Monkeywrench / Universal)
01 Getaway
02 Mind Your Manners
03 My Father’s Son
04 Sirens
05 Lightning Bolt
06 Infallible
07 Pendulum
08 Swallowed Whole
09 Let The Records Play
10 Sleeping By Myself
11 Yellow Moon
12 Future Days