I loro ultimi tre album, questo Forever Becoming incluso, sono tremendi, traboccanti di composizioni inconcludenti che non si sa bene dove diavolo vogliano andare a parare. L’immobilismo stilistico che li attanaglia da sempre, alla resa dei conti, è però un peccato veniale. Ciò che non può essere rimessa è una penuria di idee che sfiora il pietoso.
Il loro post-rock-core strumentale non ha nulla di narrativo, non ha alcunché di affascinante, suona più come un coacervo di riff lanciati in mezzo al corridoio sperando che poi qualcuno, passando per caso, li attacchi l’uno con l’altro con la saliva, notoriamente un pessimo collante.
Non bastano rallentamenti vagamente alla Black Sabbath (The Tundra) o sterili prove di forza (Immutable Dusk) per rimettere in sesto le sorti di un lavoro fragile. Qui latitano le dinamiche, i riff che ti stendono, un po’ di fottutissima varietà ritmica. Ogni tanto i nostri cari beccomuniti azzeccano qualche passaggio qua e là, ma nulla di ardito, sia chiaro.
La cosa migliore di tutto l’ambaradàn è la coda finale di Vestiges (che però saccheggia “Triad” dei Tool all’inizio, persino la tonalità è la stessa), neanche le velleità eteree di Perpetual Dawn aggiustano qualcosa. Il problema principale è che i Pelican vorrebbero farci credere che dentro quelle testoline soffi una tempesta creativa inarrestabile, quando invece c’è il deserto del Gobi. In giro c’è molto di meglio, basta mettere su un qualsiasi album dei Grails.
(2013, Southern Lord)
01 Terminal
02 Deny The Absolute
03 The Tundra
04 Immutable Dusk
05 Threnody
06 The Cliff
07 Vestiges
08 Perpetual Dawn