Quando i Pixies sono tornati nel 2014, dando alle stampe “Indie Cindy”, era parso fin troppo chiaro come la magia interrottasi nel 1991 con “Trompe le Monde” difficilmente avrebbe mai più ripreso vita. Chiaro come l’assenza di Kim Deal, incapace – o più semplicemente disinteressata – a rivestire i panni di oltre vent’anni prima, abbia giocato un ruolo fondamentale, perché quella da lei ricoperta non era la sola posizione di bassista: Kim era l’altra faccia – quella più oscura – di una medaglia che sul lato principale ha sempre visto Black Francis. Due contraltari, figure complementari, inscindibilmente unite nell’intrecciare le fila dei folletti. Al contrario di una vagonata di altre band di cinquantenni, riunitesi per continuare a soddisfare la bramosia live dei fan con i grandi classici della loro produzione, i Pixies di fermarsi a ripetere a oltranza “Debaser” o “Where Is My Mind?” non ne hanno voluto sapere, più interessati a fare musica (a prescindere dal suo effettivo valore, visto che “Indie Cindy” non è che abbia convinto più di tanto) che a subirla, quella stessa musica.
“Head Carrier” (2016) li ha premiati, con una manciata di picchi degni del loro nome e una generale freschezza che ne ha giustificato la sopravvivenza. Dopo il tentativo con Kim Shattuck, al basso s’è assestata Paz Lenchantin e la cosa ha fatto bene a Francis, Lovering e Santiago, perché Paz ovunque ha prestato il suo apporto è sempre stata tutto fuorché un braccio non pensante. Beneath The Eyrie, così, nasce proprio sulla scia della necessità della band di continuare a incidere nuovo materiale e con una Lenchantin in grande spolvero in fase di scrittura, visto che s’è ritagliata uno spazio davvero ampio, più di quello mai concesso alla stessa Deal.
Ma c’è di più, perché Paz ha firmato, sempre in coppia con Black Francis, i passaggi più convincenti dell’intero disco: il singolo On Graveyard Hill, un gancio riconoscibile al classico sound dei Pixies (che si sente forte anche nella seguente Catfish Kate, non a caso scelta come seconda anticipazione); Long Rider, che con la sua sporca irruenza dimostra come la band sappia ancora pestare a dovere i propri strumenti; e soprattutto Los Surfers Muertos, un pastone lisergico in salsa westernata in cui Lenchantin fa davvero la prima donna e non solo perché l’unica del quartetto.
Anche in St. Nazaire la furia dei Pixies più turbolenti fa il suo con caparbietà, ma “Beneath The Eyrie” dà il meglio quando i ritmi rallentano e sul collo di Francis iniziano a spuntare vene gonfie e scurissime (perché in fondo l’intero album è piuttosto “notturno”, a partire dall’artwork): è il caso della blueseggiata This Is My Fate, nonché delle ballate Ready For Love, Silver Bullet (queste due più classiche), Bird Of Prey (in cui ritorna il piglio western) e le conclusive Daniel Boone e Death Horizon (che pescano in un folk atmosferico che era prevedibile fosse nelle corde di Black Francis).
Cosa manca, allora, a “Beneath The Eyrie”? Nulla, davvero nulla. I Pixies guardano al loro ingombrante passato ma senza eccedere troppo in autocitazionismo, si divincolano bene nei meandri della loro storia e, sebbene “Surfer Rosa” (1988) o “Doolittle” (1989)” restino un altro sport, dimostrano di poter ancora trovare il proprio posto tra le band attive discograficamente e non solo per i tour-anniversario/celebrazione-di.
(2019, Infectious / BMG)
01 In The Arms Of Mrs. Mark Of Cain
02 On Graveyard Hill
03 Catfish Kate
04 This Is My Fate
05 Ready For Love
06 Silver Bullet
07 Long Rider
08 Los Surfers Muertos
09 St. Nazaire
10 Bird Of Prey
11 Daniel Boone
12 Death Horizon
IN BREVE: 3,5/5