Ci sono uno scozzese, uno svedese ed un inglese. Chissà quante volte avete sentito questa barzelletta. Peccato non sia una barzelletta (o almeno non lo era fino a qualche lustro or sono), ma una band. Questa band, per combinazione è la band che a metà degli anni novanta raccolse due separate eredità: quella androgina di Brett Anderson e dei suoi Suede e quella dell’alternative rock con ambizioni da classifica che ai tempi di Cobain e Farrell la faceva da padrone. L’album d’esordio dei nostri, a modestissimo parere del sottoscritto, ha prodotto alcuni tra i migliori testi degli anni novanta (“And it all breaks down at the first reharsal / got a muse in my head / she’s universal”, oppure “Since I was born I starter to decay”, o ancora “Stuck between the do or die, I feel emaciated / Hard to breathe I try and try, I’ll get asphyxiated” o ancora… vabbè, ascoltate ‘sto diamine di album), accompagnati da musiche ben sopra la media, attirando attorno a sé un circo mediatico non da poco: paragoni con Bowie che si sprecano, accostamenti (fuori luogo) ai Nirvana, interviste… e tutto, badate bene, solo perché Brian Molko sembrava una bella fighetta, ma in realtà i suoi cromosomi erano uno X e quell’altro Y, mica per la musica o per i testi. E allora la band incomincia a giocare su questa cosa (forti anche del singolo “Nancy Boy”, slang per “frocetto”, che è uno dei pezzi definitivi del rock anni ’90), soprattutto con il secondo, vendutissimo, album: “Without You I’m Nothing”, ricco di hit-single ed altrettanto ricco di canzoni-riempitivo. Da lì in poi si cala nel baratro: un album peggio dell’altro, una noia mortale, Brian Molko che si convincere di essere il Baudelaire dei giorni nostri… per farla breve: già visto, già vissuto, ed era pure noioso la prima volta. Ma Molko ha un’idea: basta atmosfere dark! Combatteremo per il sole! Alèèèèèè!!! ‘Sti cazzi. L’album è identico a quelli che lo hanno preceduto e che tanto ci hanno annoiato. Fra l’altro, è tetro quanto gli altri. Ma in una cosa certamente si differenzia dai suoi predecessori: non è affatto noioso. E’ fottutamente irritante; ma talmente irritante che la noia a confronto sembrerà una validissima alternativa. Steve Hewitt, secondo batterista della band in ordine cronologico, “il cui contributo più importante alla band è stato di far suonare una drum machine al posto suo in Pure Morning”, come ricorda argutamente Pitchfork, è uscito dal gruppo (per citare uno un po’ meno arguto dei tizi di Pitchfork), ed al suo posto abbiamo l’incredibile, il fantastico, il mastodontico… vabbè, non so, un pirla come ce n’è cento. Fra le altre cose dopo averlo sentito tre volte non mi è rimasto in testa un pezzo, nemmeno un pezzo fastidioso… tutto ciò è davvero deprimente. Eppure ci sarà (e c’è) chi blatererà su quanto questo sia il disco “solare” dei Placebo, su come siano tornati ai fasti di “Without You I’m Nothing”, su quanto ancora “Brian Molko still got it”… immagino che del disco non ne abbiano ascoltato nemmeno un minuto. Vabbè, basta mettere su quella cagata di “Meds”, e tagliuzzarsi le mani con la carta per riprodurre il fastidio.
(2009, Vagrant)
01 Kitty Litter
02 Ashtray Heart
03 Battle For The Sun
04 For What It’s Worth
05 Devil In The Details
06 Bright Lights
07 Speak In Tongues
08 The Never-Ending Why
09 Julien
10 Happy You’re Gone
11 Breathe Underwater
12 Come Undone
13 Kings Of Medicine
A cura di Nicola Corsaro