Kevin Parker, leader dei Tame Impala, nel corso degli ultimi anni è diventato sempre più una figura di spicco nel panorama musicale mondiale, uno di quei produttori indipendenti con cui fa figo collaborare nei propri dischi per impreziosire il proprio suono. È ormai normale ritrovarlo nei credits degli album di Lady Gaga, Rihanna, Kali Uchis, Mark Ronson, rapper come Travis Scott e così via, ma nel suo continuo divenire bigger and bigger non ha mai dimenticato di prestare aiuto ai suoi amici di Perth, i Pond.
Il gruppo, da sempre considerato in modo fin troppo sminuente un side project dei Tame Impala (quando in realtà negli anni c’è stata solo una condivisione di musicisti e Jay Watson come membro fisso di entrambe la band) arriva con Tasmania al primo disco con una major, la Interscope, e al quarto con Kevin Parker nella cabina di regia, che da “Beard, Wives, Denim” del 2012 mette lo zampino nel sound psichelico dei Pond col suo tocco magico fatto di fuzz, riverberi e delay.
Quest’aura da band “secondaria” non li ha di certo aiutati nel corso degli anni, anche se dal canto loro non hanno mai prodotto qualche disco veramente di rottura, se non buoni dischi da “band che suona nel pomeriggio” nei vari festival in giro per il mondo (non è una roba da tutti, anzi), e “Tasmania” è certamente un altro lavoro degno di nota che si inserisce in questo filone.
Per intenderci, tornando a parlare di Kevin Parker e i suoi lavori: nonostante il suo contributo, i Pond non hanno mai raggiunto la rotondità sonora dei Tame Impala, ma neanche l’accattivante ricercatezza di album come l’onomino di Melody’s Echo Chamber, rimanendo così sospesi tra sperimentazione e musica indie per le masse. E dire che il pop e la “normalità” sembra proprio ciò che sta cercando di raggiungere il gruppo di Perth, almeno da due album a questa parte.
Se “The Weather”del 2017 aveva già segnato un cambio di rotta per i Pond, in “Tasmania” alcuni brani sembrano usciti dalle classifiche radiofoniche americane degli anni ’80 e funzionano molto bene, dall’iniziale Daisy a Hand Mouth Dancer, così come Sixteen Days di cui è anche uscito un video bello e molto strano. Poi da metà in poi l’album cala drasticamente e si perde come gli altri lavori, con gli otto trascurabili minuti di Burnt Out Star e praticamente tutto quello che succede dalla seconda metà della tracklist in poi.
Il risultato è un altro disco che permetterà ai Pond di fare altre duecento date all’anno suonando nei vari Glastonbury e Primavera Sound del mondo quando c’è ancora il sole e la gente fa pranzo, ma chi non vorrebbe essere al loro posto?
(2019, Interscope)
01 Daisy
02 Sixteen Days
03 Tasmania
04 The Boys Are Killing Me
05 Hand Mouth Dancer
06 Goodnight P.C.C.
07 Burnt Out Star
08 Selené
09 Shame
10 Doctor’s In
IN BREVE: 3/5