Undici amici. Undici amici perduti in un breve arco di tempo. Alcuni erano anche amici nostri, o meglio li sentivamo amici in quella maniera speciale che unisce chi fa musica a chi la ascolta. Mark Lanegan o Taylor Hawkins erano vicini al nostro cuore in una maniera difficile da descrivere a chi tratta la musica come un frammento usa e getta da inserire in un reel da social. Ma stiamo divagando. Undici lutti senza senso, da Lanegan ad Anthony Bourdain. Una devastante battaglia nel divorzio con Brody Dalle, fatta di calunnie, ordini restrittivi, bugie, e i figli in mezzo al tornado. Una diagnosi di cancro nel 2022.
“I never say it can’t get worse, but it can get better”, dice a Zane Lowe in una bellissima, recente intervista. La vita di Josh Homme è sempre stata turbolenta, volendo usare un eufemismo; ma nella turbolenza c’è sempre stato un faro, un’oasi letteralmente nel deserto, dove Homme si è spesso rifugiato (e ci ha costruito uno dei side project più interessanti della storia del rock): la musica. Del resto lo ha fatto spesso Homme, immergersi in un oceano di distorsione e riverbero che anestetizza il dolore.
In Times New Roman… è l’ottavo album della creatura del suo leader e arriva a sei anni di distanza dal precedente “Villains” (2017), ballabile e funkeggiante ma forse uno degli episodi meno memorabili dell’immacolata carriera della band californiana. Il suo suono è tornato indietro di anni, ai tempi del forse troppo criticato “Era Vulgaris” (2007): un suono duro, spigoloso, ma incredibilmente radiofonico – opera in quell’occasione dello stesso Homme con il produttore storico della band Chris Goss, invece in quest’occasione frutto della produzione della stessa band. Niente ospiti, solo gli Stone Age stabili ormai da un po’, e del resto Homme, che ha aspettato due anni per registrare le parti vocali dell’album, si trovava in uno stato tale di “emotion sickness” da rendere forse difficoltoso il consueto clima di festa in studio. Spinto dai suoi compari a registrare, Homme offre ai suoi fan il cuore in mano, in un album ricco di emozioni taglienti come un foglio di carta fra le dita.
Non è un album che immediatamente cattura, “In Times New Roman…”; non è una coincidenza che il singolo prima citato (Emotion Sickness) sia il pezzo che appare al momento più solido, più bello, più riuscito. Ma accade una cosa curiosa: il secondo singolo, Carnavoyeur, che rimanda al suono del capolavoro del 2013 “…Like Clockwork”, incomincia ad essere uno dei migliori ascolti dell’album. E poi il terzo, l’estremamente pop Paper Machete, si accoda agli altri due, con quegli “whoo-ooh!” in falsetto che ricordano tempi migliori. È una cosa curiosa, ma non una coincidenza, perché dietro l’apparente semplicità dei brani, lontanissimi dal capolavoro cerebrale di rock robotico “Rated R” (2000), primo vero successo della band, c’è molta sostanza, e il solito connubio di melodie, riff granitici e suono immacolato al quale ormai siamo abituati da molto tempo.
“In Times New Roman…” finisce con tre puntini di sospensione, così come inizia “…Like Clockwork”, e neanche questa è una coincidenza, perché idealmente chiude una trilogia, chiude un cerchio, chiude forse una fase per Homme e i Queens Of The Stone Age. Sono finiti i tempi degli abusi, di nicotine, Valium, Vicodin, marijuana, ecstasy and alcohol, di Mary Jane Ficarotta. Josh Homme è un’altra persona, che ha concluso con un ennesimo ottimo album questo capitolo della sua vita artistica e umana. E non vediamo già l’ora di ascoltare il prossimo.
2023 | Matador
IN BREVE: 4/5