Un lustro ricco di eventi, quello che ha condotto Josh Homme a Villains. Un lustro che lo ha visto superare una terribile crisi depressiva con uno dei migliori album della sua carriera (il precedente “…Like Clockwork” del 2013, registrato senza il batterista Joey Castillo, che aveva abbandonato la band durante le registrazioni); ha visto gli Eagles Of Death Metal, band della quale fa parte come membro di studio, soffrire il vile attentato di Parigi al Bataclan; ha fatto un album e un tour con Iggy Pop – come chitarrista, mera parte della band – ed ha sofferto il successivo “burnout”, la post pop depression che dava il titolo proprio all’album dell’Iguana. Ed eccolo qui, ritornare coi suoi Queens Of The Stone Age, affiancato nientemeno che da Mark Ronson, per proporci un disco apparentemente fresco e ballabile, privo dei feroci cambi di umore del suo predecessore, privo, apparentemente, di quel gigantesco macigno sullo stomaco che pesava su “…Like Clockwork”, probabilmente dovuto a un’esperienza di pre-morte sul tavolo operatorio del nostro nel 2011.
Anche la scelta del primo singolo sembra orientata in questa direzione: The Way That You Used To Do, un pezzo con un beat (sottolineato da battiti di mani) aggressivo, allusioni sessuali niente affatto velate e un suono secco che sottolinea il graffiante riff di chitarra; è forse il più ronsoniano dei pezzi del lotto, il più “sbarazzino” (speriamo che Homme non legga mai questa definizione, o rischiamo probabilmente grosso) e non crediamo sia stato scelto a caso.
I Queens of the Stone Age infatti a questo giro si presentano soli, con Ronson alla produzione ed il meraviglioso Alan Moulder al mixaggio: per la prima volta nessun ospite, nessuna comparsata, nemmeno un Dave Grohl, un Mark Lanegan o persino un Nick Oliveri a prestare un contributo di qualunque tipo. Un tentativo, felice, di ritrovarsi, di non cadere al settimo album nell’autoparodia. Ronson fa un lavoro eccellente nel cogliere le intenzioni dei californiani e calibra il suono a seconda del beat: la suadente Hideaway è morbida e quasi bowieana, The Evil Has Landed ha un suono pungente e ipnotico che fa il pari con un riff di batteria e una linea di basso più funkeggianti, mentre la conclusiva Villains Of Circumstances – forse il brano più bello dell’album – è un piccolo acid trip che accompagna l’ormai classico pezzone conclusivo, un pezzo che rivolta il senso dell’album: “There’s no magic bullet / No cure for pain / What’s done is done / Till you do it again”.
L’atmosfera giocosa, i ritmi ballabili, il suono accessibile (col quale Ronson ha fatto un lavoro ancora una volta straordinario, mantenendo il suono desertico dei QOTSA, ma asciugandolo per enfatizzare il ritmo e allo stesso tempo arricchendolo con pennellate come i cupi sintetizzatori dell’apripista Feet Don’t Fail Me), sono un modo per non concentrarsi sul dolore, dolore che nella vita tutti dovranno affrontare prima o poi ma che non può sopraffarci (come invece accadeva in “…Like Clockwork”, nel quale anche la groovy “Smooth Sailing” aveva l’incedere dolorante di un animale ferito).
L’unica stonatura in un lavoro ottimo è Fortress, che suona come uno scarto dell’album precedente e non è aiutata da un testo che presenta una metafora insolitamente banale (“Your heart is like a fortress / Keep your feelings locked away”). Ma, fatta eccezione per questo piccolo passo falso comunque perdonabile, Homme e soci ancora una volta si dimostrano una delle poche rock band che fa pensare che no, gli idoli non sono tutti storia passata.
(2017, Matador)
01 Feet Don’t Fail Me
02 The Way You Used To Do
03 Domesticated Animals
04 Fortress
05 Head Like A Haunted House
06 Un-Reborn Again
07 Hideaway
08 The Evil Has Landed
09 Villains Of Circumstance
IN BREVE: 4,5/5