Per quanto ci si provi, soprattutto se si è nati nei primi anni ’80, è impossibile non collegare il nome della Creation Records all’ondata di britpop che travolse prima l’Inghilterra e poi il resto del mondo. Alan McGee e la sua etichetta sono stati l’anticamera del successo deflagrante degli Oasis. Il resto della storia la conosciamo tutti.
Fa sorridere pensare invece che a salvare la Creation e il buon McGee dal tracollo economico furono proprio i Ride, con quel “Nowhere” del 1990 che più di altri album regalò generosamente le coordinate precise per lo shoegaze. Ancora di più fa sorridere ricordare che, quando le tensioni all’interno del gruppo furono insopportabili, Andy Bell realizzò finalmente il suo sogno suonando come turnista al tour di “Standing On The Shoulder Of Giants” prima ed entrando a pieno titolo nella formazione ufficiale della band di Manchester poi, per seguire infine Liam Gallagher nel progetto Beady Eye. Corsi e ricorsi storici, nulla di più. Quello che invece fa ben sperare è che, nonostante il tempo, le liti e la corrente alternata nella voglia di riunirsi di nuovo, i Ride siano ancora vivi, vegeti e anche piuttosto incazzati.
“Weather Diares” del 2017 ha segnato un ritorno più piacione che piacente, della band di Oxford. This Is Not A Safe Place è, invece, un’intrigante scoperta più sotto l’aspetto tematico che dal punto di vista musicale. Prodotto da Erol Alkan e mixato da Alan Moulder (The Jesus And Mary Chain, My Bloody Valentine, Swervedriver, Lush, Moby, U2, The Cure, Nine Inch Nails) l’album testimonia una modifica stilistica, già palesata in “Weather Diares”, quasi impercettibile: un groove più secco e un muro di suono meno possente rispetto al passato, dovuto forse a tecniche di registrazione impensabili negli anni ‘90 o ancora alle nuove istanze sonore dei Ride. Da una intro come R.I.D.E. che sembra cristallizzare qualunque pensiero anti nostalgico a Future Love con le sue le chitarre chiassose e struggenti, ai buzz cattivi di Kill Switch, in verità unico episodio violento dell’album insieme a Fifteen Minutes, si passa velocemente alle malinconie dream pop di Clouds Of Saint Marie, Eternal Recurrence, Jump Jet o Dial Up.
Ma c’è un aspetto estremamente stuzzicante in “This Is Not A Safe Place” che parte dalla cover: fronte/retro della copertina del disco rivelano i simboli del percorso seguito dal gruppo. Le tre linee accanto al “nome di battesimo” della band si traducono come “not a safe place” e rappresentano uno dei segni del Codice Hobo, il sistema di comunicazione adottato dai veterani della guerra civile americana, preso in prestito da tutti i viandanti del mondo per informare gli altri viaggiatori sullo stato dei luoghi e trovato nelle prime opere d’arte di Jean-Michel Basquiat. Sul retro, invece, a ogni traccia è associato un simbolo del codice etico dei vagabondi.
Come gli input suggeriti da un linguaggio criptato, la opening track strumentale diventa “hold your tongue”, Repetition assume forma di “anything goes” (il senso che Basquiat attribuiva alla ripetizione), In This Room si trasforma in “not a safe place” e così via. Una celebrazione così forte del diritto a viaggiare e spostarsi, l’immagine di quella mano a filo d’acqua e quel “Sinking is easy / Only clouds in the mirror / Feeling uneasy Don’t look again” in Eternal Recurrence, portano inevitabilmente a pensare come la preoccupazione del gruppo di Oxford sia rivolta a quel mare che ingoia chi si sposta, chi viaggia, chi quella libertà di circolazione la difende a costo della vita.
Ad ascoltare quest’album non si ha la sensazione che Mark Gardener, Andy Bell, Steve Queralt e Laurence Collbert si siano sforzati particolarmente a buttare giù lo shoegaze più violento, eppure ciò che ne venuto fuori non è per nulla scontato come può sembrare. E dopo trent’anni, scusate se è poco.
(2019, Wichita)
01 R.I.D.E.
02 Future Love
03 Repetition
04 Kill Switch
05 Clouds Of Saint Marie
06 Eternal Recurrence
07 15 Minutes
08 Jump Jet
09 Dial Up
10 End Game
11 Shadows Behind The Sun
12 In This Room
IN BREVE: 3,5/5