Prossima a compiere i trent’anni, la Sub Pop Records continua in qualche modo a dettare le regole per quello che riguarda le mode e l’estetica nel genere indie rock e derivati. Siamo chiaramente lontani anni luce da quello che poteva essere lo spirito originario della label, così come la definizione di “indie” oggi ha radicalmente mutato connotati e indica alla fine più una sorta di moda, una definizione mutevole a seconda del “trend” del periodo e che non ha praticamente nessuna correlazione con qualche modello culturale, né quella caratterizzazione che si doveva attribuire a un modello di produzione e distribuzione appunto “indipendente”. In questo senso i Rolling Blackouts Coastal Fever costituiscono a tutti gli effetti una delle proposte tipiche della label, che si colloca come tale a metà tra un prodotto che possa essere accattivante per una fetta più o meno ampia di pubblico e qualcosa che sia a tutti gli effetti interessante per i suoi contenuti più strettamente musicali e concettuali.
Il gruppo proviene da Melbourne, Australia ed è nel giro della Sub Pop già da un po’ di tempo (ha all’attivo un paio di loro pubblicazioni, tra cui il singolo apripista dell’album, Mainland). Hope Downs esce accompagnato da un certo hype che si giustifica da sé con il riscontro positivo che ne consegue e la consapevolezza di fondo che questo successo potrebbe essere effimero e avere quella durata tipica di 15 minuti profetizzata dal Nostradamus della pop art Andy Warhol. Questo chiaramente non significa che i contenuti del disco siano in sé spiacevoli.
Prodotto con l’assistenza di Liam Judson, “Hope Downs” è sostanzialmente una raccolta di dieci pezzi dall’estetica marcatamente lo-fi, la cui freschezza del sound rimanda ai soliti riferimenti del genere come i Pavement di Stephen Malkmus o esperienze più recenti e paragoni meno scomodi come Ultimate Painting e Sunflower Bean (ma come punto di riferimento ci possono stare benissimo anche i primi Strokes e il pop dei Tame Impala, qui per fortuna reso in maniera meno sofisticata e senza tutto quello inutile sfarzo).
Le canzoni tuttavia, per quanto ripetitive, a partire proprio dallo stesso singolo Mainland, oppure Talking Straight, Time In Common, The Hammer, sono comunque convincenti proprio per la facilità e l’immediatezza dello stile compositivo di un gruppo la cui unica pecca sta solo nella pretesa di chi vuole farne una next big thing a tutti i costi. “Hope Downs” è un disco che dà molto solo non gli si chiede troppo, piace per il suo essere disimpegnato e per certa autenticità e sensibilità che in pezzi come Cappuccino City e How Long? fa sentire anche quell’eco Dunedin Sound che è sicuramente un valore aggiunto.
(2018, Sub Pop)
01 An Air Conditioned Man
02 Talking Straight
03 Mainland
04 Time In Common
05 Sister’s Jeans
06 Bellarine
07 Cappuccino City
08 Exclusive Grave
09 How Long?
10 The Hammer
IN BREVE: 2,5/5