A Ryan Adams piace correre. Si sa. Altrimenti, negli ultimi quindici mesi, non avrebbe dato alle stampe due album e un ep. Altrimenti, negli ultimi otto anni, non avrebbe registrato dieci dischi. Altrimenti, questo Cardinology, sarebbe un capolavoro. Qualcosa di molto simile, fatte le dovute proporzioni, all’incantevole “Cold Roses” datato 2005. Qualcosa di estremamente pregiato, come quel “Gold” che lo rese celebre nel 2001. Qualcosa in più, dannatamente in più di quel che invece è: un lavoro sufficiente, un lavoro nella media (o forse un tantino meno, suvvia, bisogna essere cattivi). Condito, naturalmente, da alcune perle assolute. Perchè così vuole la formula Adams: tanto, troppo materiale che fa da riempitivo a pochi, bellissimi pezzi diluiti disco per disco. E non che ci spiaccia, in fondo: parliamoci chiaro. La buona musica è sempre buona musica. Una scopata è sempre una scopata. E farsi tre scopate a settimana, forse, è meglio che farne sei ogni due. Però è una seccatura che quelle tre, maledettissime scopate, siano interrotte dal telefono che squilla. Dal mal di testa. Dalla bambina che piange. Dai vicini che urlano. L’atmosfera si rovina, la magia si perde del tutto. E la cosa, impossibile negarlo, ti fa incazzare parecchio. Così, dopo l’ottimo, illusorio trittico iniziale Born into a light–Go easy–Fix it segue la prima nota stonata. Magick, di fatto, ci riporta alla mente uno degli episodi minori della carriera di Ryan: “Rock ‘n’ Roll”. Chi l’aveva definitivamente accantonato, beh, dovrà farsene una ragione. Solo per poco però, fortunatamente: la splendida Cobwebs, infatti, ridona luce allo scenario, col suo malinconico incedere passo dopo passo verso la fine di un amore. E’ soltanto la quinta di dodici tracce, eppure il disco, a questo punto, ha già esaurito le sue cartucce migliori. Ciò che segue è puro e semplice repertorio: brani che si assomigliano tanto, troppo, che risultano monocorde e tutto sommato anonimi, che non regalano alcun sussulto al cuore o alle orecchie, che non riescono a stamparsi in mente neanche dopo qualche ascolto. Capitolo a parte, infine, merita (si fa per dire) la conclusiva Stop: qui la malinconia si tramuta in stucchevolezza e prevedibilità, tracciando le coordinate di un lavoro che, partito da ottime premesse, si sviluppa in un continuo discendendo. E allora provaci ancora, Ryan, sì, siamo d’accordo: ma lascia passare due anni. O quantomeno evita altri lavoretti intermedi. Non farci girare le palle, insomma. Altrimenti ci costringerai a riprenderti un’altra volta, fare i conti col passato e con quell’odiosa frase che sentivamo sempre a scuola, da bambini: il ragazzo ha le potenzialità, ma non si applica.
(2008, Lost Highway)
01 Born into a light
02 Go easy
03 Fix it
04 Magick
05 Cobwebs
06 Let us down easy
07 Crossed out name
08 Natural ghost
09 Sink ships
10 Evergreen
11 Like yesterday
12 Stop
A cura di Michele Leonardi