Una specie di Penelope alcolizzata, con Ray Ban sugli occhi e sigaretta appiccicata sulle labbra. E’ questo Scott Weiland da sempre. Ovvero un musicista che tra Stone Temple Pilots, album da solista e Velvet Revolver ha sempre tessuto e poi disfatto la tela della sua musica e della sua vita. Chissà per allontanare cosa, chissà per tenere lontano chi. Ma tant’è che è un po’ il destino di questo James Dean dell’ultimissimo grunge (sul cui autobus, partenza Seattle, salì proprio a fine corsa), sempre alle prese con eccessi d’alcol e droga, con un caratteraccio ai limiti della camicia di forza, con un’immagine di rocker maledetto da assecondare. Lo scorso anno Weiland ha pubblicato “Libertad” con i Velvet Revolver di Slash, per poi mandarlo al diavolo col fine di organizzare un reunion tour con i vecchi amici dei Pilots (fermi dal 2002). Poi stop anche a quello per tuffarsi nel secondo disco solista dopo “12 Bar Blues” del 1998. Il risultato è un Happy In Galoshes totalmente da dimenticare. Un disco che è una umiliazione del rock americano. Weiland si muove tra canzoni andate a male sott’al sole (Missing Cleveland), reminiscenze del peggior Bon Jovi (Blind Confusion), qualche omaggio strabico al surf-rock (Paralysis), ballate da luna park e zucchero a velo (She Sold Her System, Kiling Me Sweetly), imbarazzanti suoni hip hop con Paul Oakenfold dei No Doubt (Fame). Con una voce che è canto del cigno ed un approccio musicale confusionario e pasticcione. Se la prima parte del disco è quasi tutta da buttare con buona pace delle nostre orecchie, la seconda, a partire dal singolo Crash, forse si risolleva un tantinello. Canzoni “poppastre” ma quantomeno dotate di personalità e qualche grammo di voglia come Beautiful Day e Be Not Afraid hanno il merito di dire alle ultime generazioni, all’ascolto, che questo tizio è entrato (suo malgrado?) nella storia del rock anni ‘90. Ed è probabilmente la felicità (come da titolo) ad essere l’ago della bilancia di questo nuovo lavoro di Weiland. Una serenità che porta Scott a cantare come un usignolo, a tinteggiarsi di qualche colore pastello, ad immergersi nella canzone facile. Una fase che lo accomuna ai disastri dell’ultimo Chris Cornell e che sottolinea come certi artisti, venuti dai fasti dei nineties, riescano a dare il meglio di sé solo con diversi strati di amarezza (vera o presunta) sotto la lingua. Ma tanto anche la tela di questo disco sarà “sfilacciata” da Weiland con l’ennesima scazzottata, l’ennesimo strappo, l’ennesima stupida dichiarazione ai giornali. Forse è un modo per fermare il tempo, per giocare ancora un po’, e per non crescere mai.
(2008, Soft Drive Records)
01 Missing Cleveland
02 Tangle with your mind
03 Blind confusion
04 Paralysis
05 She sold her system
06 Fame
07 Killing me sweetly
08 Big black monster
09 Crash
10 Beautiful day
11 Pictures & computers (I’m not Superman)
12 Arch angel
13 Be not afraid
A cura di Riccardo Marra