Sean O’Hagan è sicuramente una figura particolare nel panorama della musica alternative pop. Intanto si può dire che non ha mai avuto i riconoscimenti che probabilmente avrebbe meritato, la sua fama è rimasta sotterranea nonostante la lunga carriera e la militanza in un gruppo tutto sommato famoso come gli Stereolab. Per il resto, il compositore e musicista irlandese (impegnato negli ultimi anni come frontman del progetto The High Llamas) si può considerare elevato a oggetto di culto per l’esperienza Microdisney con Cathal Coughlan (che qui duetta con Sean in Take My Steps), progetto che ogni tanto spunta qua e là tra le cose da recuperare.
Il fatto che il suo ultimo disco solista (anche se va detto che The High Llamas è in buona sostanza una sua creatura) prima di questo “ritorno” risalga al lontano 1990, fa di Radum Calls, Radum Calls un piccolo evento che però pare essere destinato, come al solito, a una ristretta platea di aficionados oppure a veri e propri cultori di questi suoni che stanno in bilico tra la bossa nova e il chamber pop. Vi piacciono Burt Bacharach, gli Stereolab più pop, la svolta di David Byrne degli ultimi venti/venticinque anni? A tutti questi riferimenti bisogna aggiungere un approccio visionario che ha qualcosa dei Pink Floyd del periodo Syd Barrett, una psichedelia pop tipicamente british e il gusto più triviale Brian Wilson.
Le canzoni di “Radum Calls, Radum Calls” hanno infatti un gusto sofisticato, nouvelle vague, e Sean O’Hagan è una sorta di chansonnier che combina l’indubbio talento melodico con sfumature esotiche, perse in un tempo lontano e che possono affascinare l’ascoltatore, tutto accompagnato da un campionario di strumentazioni particolari e curiose. Ci sono tuttavia forti limitazioni per quella che può essere la platea di riferimento: personalmente, considerato anche come non mi abbia mai entusiasmato neanche l’esperienza Microdisney, se posso apprezzare sicuramente la sua inventiva e le sue capacità come musicista, faccio fatica a considerare un disco come questo come qualcosa che possa seriamente segnare un ascoltatore.
Sì, va bene, non è irritante come ascoltare David Byrne, ma i suoni sono troppo vacui e le visioni fin troppo miti, ma di una mitezza rassicurante che non è in fondo ciò che chiediamo a quella che riconosciamo come “arte”, una sorta di acquerello, una tela tinta a colori pastello e con tratti leggeri. Ma forse è meglio calcare forte e lasciare il segno, perché questo disco lascia solo delle sensazioni leggere che vanno via facilmente e ti lasciano solo come prima, non ti rimane niente.
(2019, Drag City)
01 Candy Clock
02 Better Lull Bear
03 I Am Here
04 The Paykan (Laili’s Song)
05 McCardle Brown
06 Clearing House
07 On A Lonely Day (Ding, Dong)
08 Spoken Gem
09 Sancto Electrical
10 Take My Steps (Nora Bramms)
11 Radum Calls
12 Calling, Sending
IN BREVE: 1/5