La vita post “Are We There” (2014) della Van Etten non può dirsi sia stata scarsa di avvenimenti: un figlio, partecipazioni a serie tv (The OA e Twin Peaks), l’inizio degli studi in psicologia al Brooklyn College e una storia d’amore – quella con Zeke Hutchins, suo batterista diventato poi suo manager – che ha scacciato i fantasmi di un passato sentimentale burrascoso.
Di questo elenco, d’emblée, la maternità, la prima, è sempre una rivoluzione degli schemi vitali ma anche un’epifania che sa di rinascita. Tant’è che in questo quinto full lenght della cantautrice americana di Clinton, gli effetti del rinnovamento sono evidenti già a partire dalla copertina del disco: una stanza totalmente in disordine con giocattoli e oggetti vari posti alla rinfusa, un bambino seduto ai piedi di una culla e una bambina accovacciata in un enorme cesto di plastica rovesciato. Tutto ciò ci dà il saggio dell’enorme caos che ha circondato la Van Etten durante la realizzazione di Remind Me Tomorrow. Parafrasando un filosofo del ‘900, è proprio da qui, da questo caos, che si è generata “la stella che danza”, ossia il disco.
Scritto nelle fasi iniziali interamente al piano, è stato poi riarrangiato e prodotto da un maestro dei suoni come John Congleton – già al lavoro in passato con St. Vincent, David Byrne, Angel Olsen, Anna Calvi, Explosions In The Sky – che gli ha conferito una veste sonora più sperimentale, ridimensionando l’approccio adoperato nei dischi precedenti tendente maggiormente all’alt folk e a una voluta autoproduzione dal connotato lo-fi.
È un disco di rottura con gli stilemi musicali del passato, si insinua nell’ascoltatore avvolgendolo in una nube di stratificazioni sonore, proiettandolo in questa dimensione compositiva fatta di particolari che si aggiungono durante l’incedere dei brani. È questo il caso di pezzi come Memorial Day con la sua cortina di synth rarefatti, in cui la voce della Van Etten si staglia come un’eco che fa da cornice a queste armonie distorte; o anche di brani come Hands e Jupiter 4 – quest’ultimo prende il nome dallo strumento utilizzato – in cui i sintetizzatori forniscono all’atmosfera un taglio più cupo e melanconico.
Tuttavia, una linea di continuità con i precedenti lavori la si può tracciare con la scrittura dei testi sempre lucida e vivida, che si focalizza su immagini nitide, diapositive di spaccati di vita recente della cantautrice dalla grande potenza evocativa. Il brano d’apertura del disco, I Told You Everything, è un manifesto in tal senso: “Sitting at the bar, I told you everything / You said, “holy shit, you almost died” / Sharing a shot, you held my hand / Knowing everything, knowing everything, we cried / I told you everything about everything”. Pochi versi accompagnati da sordi accordi di pianoforte che raccontano la chiusura con un passato doloroso e la presa di coscienza di un presente propizio e stimolante.
Non mancano riferimenti nostalgici alla sua adolescenza newyorkese, città cui rende un meraviglioso tributo (Seventeen), ma l’altra grande fonte d’ispirazione di questo disco resta, senza dubbio, l’essere diventata madre. AI brano finale Stay è assegnato il compito di manifestare come questo evento abbia permeato positivamente la scrittura del disco. Un cambio di rotta vincente, una veste che le calza a pennello, solo applausi per Sharon Van Etten. Welcome back, Girl!
(2018, Jagjaguwar)
01 I Told You Everything
02 No One’s Easy To Love
03 Memorial Day
04 Comeback Kid
05 Jupiter 4
06 Seventeen
07 Malibu
08 You Shadow
09 Hands
10 Stay
IN BREVE: 4,5/5