I Sigur Ros sanno di essere speciali. E’ come se, nel loro rifugio, ci fosse uno specchio che riflette ciò che hanno rappresentato in questi dieci anni. Loro lo sanno e vi si specchiano continuamente. Un po’ vanitosamente ma con timidezza. Prendi, ad esempio, “Hvarf/Heim” dello scorso anno e il quasi omonimo documentario dedicato alla bellezza dell’Islanda. Era innanzi tutto un’auto celebrazione. Un inno ad un modo d’essere e ad una ricetta segreta da custodire. Anche “Takk…” (2005) cantava un “grazie” personalissimo alla natura e alla luce che, quando torna a Reykjavik dopo il lungo inverno, sa essere più brillante che in altri luoghi. E dunque oggi, che a riverberare magnifico c’è il nuovo disco Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust, l’esultanza di pianoforti, violini, orchestra, chitarre, colori, ma anche il sussurrare di melanconie può ricominciare a esaltare la magia della loro terra e quindi la loro immagine riflessa. Lo stesso titolo (“Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito”), scelto in barba a qualsiasi esigenza commerciale (occidentale), è impregnato di islandesità e riempie alla perfezione le proverbiali scatole magiche dei Sigur Ros. In “Med” però c’è ancora qualcosa in più: c’è che è un disco che è storia di una generazione, di una decade. Non più l’album strano e dolcissimo di una band nuova e suadente. Ma invece il disco di un progetto che verrà ricordato negli anni, raccontato come soundtrack dell’anima che s’immerge nello spettacolo del mondo. Una specie di panico incontro tra chitarre e geografie, un’esplosione sonica di luce leggerissima, l’emozione un po’ immagini e un po’ suoni pungolata dalla magnificenza dei luoghi. E si potrebbe citare canzone per canzone di questo disco: Gobbledigook raccontata da un chitarrismo flamenco, Góðan daginn col suo pop celestiale, Festival dipinta di chiaroscuro struggente, All Alright con la nenia più bella, Fljótavik con la voce di Jonsi Birgisson a strozzarsi dall’emozione. Ma fatto sta che in “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” – come nella tradizione dei grandi dischi – è la successione naturale delle sue tracce a renderla un’esperienza emotiva eccezionale. Un ascolto che costringe l’ascoltatore a fare i conti con se stesso, con la propria storia, con il proprio cuore. E che suggerisce all’intera generazione che vive questi anni così veloci, tecnologici, senza pietà, a fermarsi un attimo. Almeno per un po’. Vanitosi ma infiniti, questi Sigur Ros.
Nota 1: Registrato tra New York, Londra, L’Avana e Reykjavik sotto la guida di Flood e con la solita collaborazione agli archi del quartetto femminile delle Amiina. Nel brano “Ára bátur” a sostenere i Sigur Ros ci sono oltre 80 elementi tra la London Sinfonetta e il London Oratory Boy Choir.
Nota 2: “Festival” è l’unico pezzo, ad oggi, cantato da Jonsi Birgisson in inglese abbandonando per un attimo l’islandese e l’hopelandic (lingua sperimentale).
(2008, Emi)
01 Gobbledigook
02 Inní mér syngur vitleysingur
03 Góðan daginn
04 Við spilum endalaust
05 Festival
06 Með suð í eyrum
07 Ára bátur
08 Illgresi
09 Fljótavík
10 Straumnes
11 All alright
A cura di Riccardo Marra