Sono passati dieci anni da quando le tre Sleater-Kinney decisero di appendere gli strumenti al chiodo, subito dopo aver sfornato il loro penultimo “The Woods”. Ed è proprio nell’ultima decade che i significativi shock in ambito mondiale hanno messo in crisi non solo l’intero sistema economico ma anche e soprattutto quello culturale e socio-politico. Il trio di Olympia non poteva rimanere inerme a guardare, senza intervenire. Ecco che prontamente Corin Tucker (voce, chitarra), Carrie Brownstein (voce, basso) e Janet Weiss (batteria) decidono da brave (si fa per dire) riot grrrl di riversare tutta la loro frustrazione per i tempi che corrono dando alla luce No Cities To Love, disco che riprende e porta avanti, seppure ammorbidito nei toni, il discorso attivista intrapreso anni addietro dalle tre super-girl del rock’n’roll.
Si inizia a bomba: nessuno sconto col pezzo di apertura Price Tag, critica esplicita al sistema capitalistico, con il drumming della strofa in bilico tra jazz e latin e l’esplosione di un ritornello che mira dritto al sodo senza fronzoli e menate di alcun tipo. Ci si aspetterebbe a questo punto l’ennesimo capitolo di un libro scritto da una band che ha da sempre sputato in faccia tutta e nient’altro che la verità, condita da un sound al tritolo, viscerale e atonale allo stesso tempo.
Niente di tutto ciò: Bury Our Friends e Fangless sfoggiano un punk-funk che più mainstream e radiofonico non si può, sintomo forse che per le Sleater-Kinney lo stare lontane dalle scene per tutto questo tempo e l’aver messo su famiglia abbia contribuito ad un certo imborghesimento. I due pezzi sopraccitati sembrano cavalcare più l’onda new che quella no-wave (dei primi Sonic Youth, per intenderci), dalla quale le nostre hanno fortemente tratto ispirazione.
Ipotesi consolidata dalla cantereccia A New Wave, nella quale alle iniziali dissonanze armoniche prodotte dalle due chitarre nevrotiche si contrappone un ritornello smielatamente melodico ed orecchiabile. La passione spropositata per la critica sociale si palesa con il pezzo che dà il nome al disco, No Cities To Love. La mancanza di punti di riferimento delle dispersive metropoli americane, causata dall’esasperato stile di vita finalizzato al raggiungimento del miglior grado di profitto possibile, non fa altro che intorpidire le relazioni sociali e i sentimenti umani che consentono all’Io di potersi esprimere artisticamente al meglio. Questo bisogno di amore viene ribadito nella quasi blueseggiante Gimme Love.
L’epilogo viene scritto con Fade, dalla struttura di tipo ABAB caratterizzata da un inquietante intro zeppeliniano, successivamente ripreso nel ritornello, e da un destabilizzante cambio di tempo che rappresenta la svolta di chi ha deciso di affrontare la propria vita senza sottostare ad alcun genere di schema imposto dal sistema. A volte la volontà da parte di un artista di provare a scrivere qualcosa di nuovo, elaborando uno stile che tenda a discostarsi del tutto da quanto prodotto in passato, per risultare rispondente ai canoni del moderno mercato discografico, potrebbe creare un immagine fuorviante dell’artista stesso.
L’intento delle Sleater-Kinney va interpretato sulla base della volontà condivisa di creare un sound più accessibile, in grado di arrivare a quanta più gente possibile, in modo da risvegliare le coscienze attraverso le tematiche trattate. Il coraggio del trio di Olympia va sicuramente lodato, considerato che non è proprio frequente trovare una band impegnata in grado di sfoggiare liriche taglienti immerse in un contesto sonoro che risulti qualitativamente valido.
(2015, Sub Pop)
01 Price Tag
02 Fangless
03 Surface Envy
04 No Cities To Love
05 A New Wave
06 No Anthems
07 Gimme Love
08 Bury Our Friends
09 Hey Darling
10 Fade
IN BREVE: 4/5