Questa è la storia di tre ragazzi, di pomeriggi argentati, di frappé al cioccolato, di chitarre e tracce di musica. La storia di un album che arriva dal passato, di certe immagini ingiallite. I dischi postumi vivono sempre questo baratro: di qua sono un’occasione persa, di là un’occasione miracolosamente guadagnata. Perché quando Matt Linkous (con l’aiuto della moglie Melissa) mette mano ai brandelli di musica che il fratello Mark aveva pensato come quinto disco Sparklehorse, di fatto, lo riporta in vita almeno per un po’. Non è la prima volta che accade naturalmente. È successo con “Eight Gates” di Jason Molina, con i numerosi materiali di Elliott Smith o, andando indietro, con i bozzetti di Nick Drake, di Jeff Buckley o con quel miracolo tecnologico che riportò sulla terra John Lennon in “Free As A Bird”. La storia di Bird Machine però è diversa. Quei tre ragazzi, Mark, Matt e Melissa, che passavano i pomeriggi mangiando schifezze e suonando, meritavano un ulteriore giro di lancette. Almeno un ultimo pomeriggio assieme. Lo meritava Sparklehorse, il moniker che Mark ha trasformato in emblema bastava indossasse un copricapo a forma di cavallo e imbracciasse una chitarra.
Cos’è stato Mark Linkous per la musica americana? Cos’è stato per quel passaggio stretto tra secoli? È stato il buio fatto di luce. Il bambino mai cresciuto. Le chitarre spellate, sfiancate. La voce masticata, sussurrata, distorta. E poi una pozione di musica grezza ma incredibilmente splendente come una pioggia di terra che si trasforma in panno di lino in volo col vento. In “Bird Machine” c’è tutto ciò ed è per questo che è un album Sparklehorse al cento per cento al netto, certo, del lavoro alchemico di Matt e Melissa per riportarlo alla luce. Ma la cosa che conta è che Mark è lì di nuovo come un fantasma però buono. La sua voce impastata racconta di sé in Kind Ghosts e di quegli spettri che dovevano guidarlo prima del suicidio. “Dov’eravate quando avevo bisogno di voi?”, Linkous si rotola su un tappeto di elettronica sognante.
Buio e luce si diceva prima, Evening Star Supercharger è una canzone che si muove sulla sottilissima linea di un raggio filtrato da serrande abbassate, così come Falling Down: una ballata balsamo e tragedia. The Scull Of Lucia ed Everybody’s Gone to Sleep raccolgono la quota country del disco, quella che prende la melodia la fa fiorire al sole fragile della Virginia. Ma c’è una canzone che forse più di ogni altra ci riporta Mark sull’uscio, poggiato sullo stipite con quel suo sguardo intermittente. È O Child. Una ballata drammatica. Una canzone del tempo che muore. L’infanzia che si impasta col presente e lo compenetra.
“Oh bambino, so che può essere brutto
Oh bambino, a volte sarai triste
Ma ecco che arriva il sole
E le armi spianate del mattino”
Mark è dentro questa ninnananna struggente. È lui stesso la filastrocca. La dedica, chissà, è rivolta al nipote, o forse al fratello quando era piccolo, o forse ancora a se stesso impresso in qualche foto di famiglia. Ma fatto sta che si rimane ad ascoltarlo come fosse dedicata all’intera infanzia come concetto. “Bird Machine” si conclude con due brevissime composizioni, Blue e Stay. La prima totalmente strumentale, l’altra con una voce appena accennata. Di fatto, entrambe, quella bava di luce ai piedi della porta che lascia un fantasma quando se ne va, stavolta, purtroppo, per sempre.
2023 | Anti-
IN BREVE: 4/5