Gli Spoon oggi suonano come una fotografia che non ha bisogno di post produzione. Nitida nei particolari, con un’idea precisa di realizzazione e con una messa a fuoco dal tempismo quasi perfetto. Una band che, dopo aver attraversato tre decenni di carriera, sa far fruttare bene le esperienze accumulate. La scrittura non è lasciata al caso, gli Spoon sanno quello che vogliono e sanno come farlo, con mestiere. Insieme a produttori che sanno esaltare i punti di forza della loro cifra sonora.
Lo stato di grazia attuale della band texana non è il frutto del caso o di un episodio. No. Britt Daniel e Jim Eno hanno lavorato molto sull’identità e sul modo di resistere al rischio di essere fagocitati dall’anonimato. La sopravvivenza alla proliferazione di gruppi indie rock o pseudo tali, fuoriusciti a cavallo del periodo ricompreso tra MySpace e l’avvento dei social e della musica in streaming, è passata attraverso la ricerca di un suono che non si appiattisse su un solo immaginario. In una parola: trasversalità. Come realizzarla? Scrivendo melodie da attaccare alle pareti della memoria utilizzando riff di chitarra sghembi e rumorosi. Riprendere la lezione di maestri come Primal Scream e Pavement per darne una personale chiave di lettura.
I picchi toccati con i dischi pubblicati con la Merge Records nei primi anni duemila (“Kill The Moonlight”, 2002; “Gimme Fiction”, 2005; “Transference”, 2010) ne sono un esempio, ma la qualità degli ultimi lavori fa pensare che questo apice, in realtà, si mantenga costante. “Hot Thoughts”, del 2017, ha sancito il ritorno con Matador che li ha rimessi sotto contratto dopo quasi vent’anni pubblicando un disco con una vena più psichedelica e dreamy. La presenza di Dave Fridmann (The Flaming Lips, Mercury Rev, Tame Impala) alla produzione ha favorito questa scelta, ripagata, comunque, dai risultati.
Nonostante ciò, Britt Daniel e soci scelgono di dare un taglio diverso alla scrittura del nuovo disco, optando per una maggiore immediatezza dei pezzi. Messa così ne deriva che Lucifer On The Sofa è appagante. Ed è vero: i quasi quaranta minuti di durata scorrono inesorabili non mostrando (quasi) mai momenti di stanca. È un disco di canzoni con la C maiuscola: stanno bene da sole, possono essere estrapolate e avere vita propria ma non confliggono se valutate nell’insieme. La costruzione della setlist è rifinita con cura: talvolta la fine di un pezzo si aggancia perfettamente all’inizio dell’altro, quasi come se fossero pensati per suonare necessariamente in rapida successione. La scelta di affidare la produzione a Mark Rankin (Bloc Party, Queens Of the Stone Age) ha agevolato questa propensione a sonorità più catchy e meno cervellotiche.
Il disco si apre con una cover, Held degli Smog, che non a caso riprende il Bill Callahan più elettrico. La scelta ha un chiaro intento programmatico: nessuna salvezza per chi non è disposto a farsi rapire dal groove chitarristico degli Spoon. The Hardest Cut non è da meno: è pressochè impossibile restare inermi davanti all’ascolto di questo riff sporco, dall’anima blues ma declinato con sfacciataggine. The Devil & Mister Jones richiama un po’ i Talk Talk di “It’s My Life”, mentre Wild sembra uscita da “Screamadelica” dei Primal Scream. C’è spazio anche per ballad più struggenti e sognanti (My Babe e Astral Jacket), per il power pop di On The Radio e per la ruvidezza innodica di Feels Alright. La chiusura spetta alle sonorità più dilatate della title track, avvolta nella ombrosa sospensione dei fiati. Mestiere e ispirazione la sintesi di questo disco: mai darli per scontati in questi tempi rapidi.
(2022, Matador)
01 Held
02 The Hardest Cut
03 The Devil & Mister Jones
04 Wild
05 My Babe
06 Feels Alright
07 On The Radio
08 Astral Jacket
09 Satellite
10 Lucifer On The Sofa
IN BREVE: 4/5