Dopo le accecanti luci della ribalta che li hanno illuminati nel 2001, da circa dieci anni gli Staind sono tornati nell’ombra mentre molti altri crepavano per strada. Inevitabile destino per gruppi schiavi del genere cui appartengono, codici musicali creati in vitro da abili marketing planners e con precise scadenze negli indici di vendita. La schiavitù stilistica non ha mai permesso agli Staind di emanciparsi ed evolversi verso qualcosa che non fosse un nu-grunge tardo-adolescenziale ancora butterato dall’acne. L’ostinato tentativo di Aaron Lewis e soci di bissare il successo da malinconia-portami-via di “It’s Been Awhile” è quasi stucchevole e ha indotto il gruppo a secernere dischi di un anonimato disarmante come “14 Shades Of Grey”, “Chapter V” e soprattutto il tremendo “The Illusion Of Progress”, roba da terza elementare del rock tristomane da classifica. Non è complicato farsi un’idea di Staind, settimo tassello di una carriera fondata su una crisi depressiva tanto irreversibile da rivelarsi posticcia. Come al solito, le cose potabili stanno a capo della tracklist: maniche in su per mostrare i bicipiti in Eyes Wide Open, immancabile opener energica utile a gettare un po’ di fumo negli occhi. Segue a ruota il singolo Not Again, che si gioca tutti gli assi nel ritornello, ben infiocchettato dai controcori. Il furore degli Staind si smorza però a partire dal terzo solco. Failing è una ballata floscia che parodia, neanche a dirlo, gli Alice In Chains. Ruffiano, per non osare definirlo ridicolo, il rap-metal accennato in Wannabe – giustificato dalla comparsata di Snoop Dogg. Throw It All Away tenta la formuletta magica della celeberrima hit di qualche riga sopra, ovviamente fallendo con la sua insipienza e Something To Remind You non è una tra le più scialbe tiritere voce/chitarra da un pezzo a questa parte solo perché gli Stone Sour hanno scritto una “Bother” in tempi più che sospetti. Gli Staind imboccano una strada melodica decente nel refrain di The Bottom, per il resto cincischiano in un angolino a capo chino in compagnia delle loro menate sulla solitudine cosmica e il male di vivere con attacchi solo in apparenza violenti (si senta la slavina di elettroni di Paper Wings, ovvero fuffa da ottima ingegneria del suono). Siamo cresciuti e questa roba non ci impressiona, anche perché gli sparuti sprazzi di rabbia che gli Staind tirano fuori dal taschino sono sempre così calibrati e tenuti a guinzaglio che è impossibile che degenerino in vera e propria disperazione, quella che ti taglia l’anima con un machete. Non va tanto preso in considerazione il senso, quanto misurata l’utilità sociale di una roba simile: far-dischi-per-soddisfare-le-previsioni-di-vendita non vuol dire essere artisti, questo è lapalissiano. Gli Staind, così come centinaia di migliaia di altre band più o meno famose lì fuori, sono solo dei mestieranti con degli strumenti in mano.
(2011, Roadrunner)
01 Eyes Wide Open
02 Not Again
03 Failing
04 Wannabe
05 Throw It All Away
06 Take A Breathe
07 The Bottom
08 Now
09 Paper Wings
10 Something To Remind You
A cura di Marco Giarratana