Che in casa Wilson l’aria stesse cambiando era abbastanza evidente già nel 2017, quando buona parte della tracklist di “To The Bone” lasciò a bocca asciutta la fanbase assetata di nuovo materiale firmato dal prodigio del prog del ventunesimo secolo. Da Agosto 2017 il vissuto personale dell’artista Hertfordshire è cambiato non poco, avendo acquisito contemporaneamente le vesti di marito e padre di due bambine, figlie avute dalla sua compagna in una precedente relazione. Molti attribuiscono la responsabilità della sferzata stilistica a tinte più leggere a questo “stato di grazia” personale, ma facciamo umilmente osservare che per fortuna non sempre lo stile creativo di un’artista coincide con il suo vissuto personale.
Così è nel caso di Wilson, a cui comunque tale scetticismo dimostrato dai fan verso le nuove sonorità non è dispiaciuto, diventando una delle molle che lo hanno spinto a portare avanti l’accantonamento delle chitarre in favore di sperimentazioni elettroniche e un pop giocoso. Wilson è un nerd, testardo e perfezionista, e chi pensa che non abbia le capacità di approcciarsi alla dance, all’elettronica, a un certo groove, sfizioso e ballabile che gli consenta allo stesso tempo di alleggerire il suo status di chitarre ostinate e austerità, compie un errore clamoroso. Sottolineando che discutere di leggerezza, nell’ambito di un qualsiasi lavoro di Steven Wilson è sempre abbastanza relativo.
L’impalcatura concettuale che sorregge The Future Bites, quinto album da solista per l’ex frontman dei Porcupine Tree, comprende la The Future Bites Corporation, la piattaforma su cui è possibile trovare in vendita un rotolo di carta igienica personalizzato, una bomboletta spray in edizione limitata, un deluxe box set e il cofanetto Ultra Deluxe (già acquistato da Alan Lastufka, imprenditore e collezionista), comprensivo del certificato di nomination ai Grammy 2011 per il miglior surround sound mix (“Grace For Drowning”), gli originali dei testi di tracce comprese tra il 1996-2020 scritti a mano da Wilson e “The Tastemaker”, traccia presente al suo interno come unico esemplare.
La colonna portante del progetto naturalmente è una provocazione che costringe a ragionare sulla smania di possesso, per di più liquido, sull’acquisto compulsivo, sull’identità digitale, sul deepfaking, sull’assenza di pensiero critico. Si tratta di un ragionamento molto più sottile di quanto si possa pensare e che non si limita al solo ascolto del disco o a uno sguardo fugace della presentazione sui canali social dell’artista. I particolari quasi impercettibili che mettono in luce l’attuale regressione umana, che parte dal desiderio spasmodico di oggetti tanto inutili quanto costosi e arriva all’appropriazione dell’identità altrui, ancora meglio se ricca e vincente, fanno di “The Future Bites” un lavoro all’altezza della complessità e della ricchezza creativa di Steven Wilson, a partire dall’artwork, con un primo piano che sovrappone il suo volto a quello di una modella manipolata digitalmente per somigliargli ancora di più.
Self (“Self-absorbed and self-obsessed, If not me then someone else”) scandaglia i concetti contrapposti di identità e deepfake, intesa come personalità, e mentre Wilson accenna al voguing, lo stile di danza nato come espressione di un’identità non concessa al di fuori di contesti suburbani quali le ballroom di Harlem negli anni ‘70 e ‘80, sovrappone la sua immagine al volto di Brad Pitt, Robert Downey Jr., Scarlett Johansson; il primo switch che compie è quello con Trump, nell’ultimo fotogramma si trasforma in Bowie: due opposti, la banalità del male e la genialità di giocare con la propria unicità rinnovandosi continuamente. Sperimentare per Steven Wilson non equivale a “teorizzare il mai ascoltato” ma aprirsi a un suono nuovo e, per quanto possa sembrare una mossa di marketing tendente ad allargare la platea di ascolto, è un atteggiamento perfettamente coerente con la sua forte personalità, straripante di elogi verso Billie Eilish e di critica nei confronti dei Greta Van Fleet.
Per questo, “The Future Bites” non si erge a creatore di una nuova era di suoni e visioni, mettendo in luce a un certo modello di funk ‘70/’80, da sempre nelle corde dell’artista. C’è Eminent Sleaze, un funk dal groove lento, totalmente assente di strumenti elettronici, c’è King Ghost, una progressione naturale di atmosfere trip hop e un falsetto che porta Wilson a spingersi oltre i suoi canoni armonici, c’è Man Of The People, cinque minuti beati di ambient straordinariamente appaganti; c’è Follower con le sue percussioni veloci e asciutte, le tastiere e le chitarre distorte e c’è 12 Things I Forgot, di sicuro la traccia più pop e giocosa dell’intero album e in generale di tutta la sua discografia.
Personal Shopper è singolo per sua natura insuperabile che permette di scorgere i tratti somatici inconfondibili dell’artista inglese, nei suoi dieci minuti di linee di basso perfette, negli arrangiamenti cattivi, eleganti e puliti; non è semplice riconoscere Sir Elton John, meravigliosamente impassibile mentre legge una lista di articoli di lusso del tutto inutili, ma comunque lucido nel rifiutare di nominare alcuni oggetti (“Non ho mai posseduto uno smartphone, non vedo perché dovrei desiderarlo”).
Di certo, fa sorridere che un album in aperta opposizione al pensiero veloce, all’assenza di capacità critica nella fruizione di contenuti a basso impegno cognitivo, al deepfake, alla viralità, venga ascoltato e discusso unicamente in rete e dalla rete, senza possibilità alcuna di ascoltarlo dal vivo, almeno per ora, ma tant’è. Poco male, un album di Steven Wilson equivale a un lavoro di qualità imponente, poco vale che sia prog, funk, pop, crossover, ciò che conta è la pienezza del risultato: un album conciso, elegante, coinvolgente, dal groove leggero ma non per questo approssimativo.
(2021, Caroline International)
01 Unself
02 Self
03 King Ghost
04 12 Things I Forgot
05 Eminent Sleaze
06 Personal Shopper
07 Man Of The People
08 Follower
09 Count Of Unease
IN BREVE: 4/5