L’inverno è arrivato. State tranquilli, nessun mega spoiler a tema Trono di Spade. Semplicemente, si avverte una sensazione di freddo costante ogni volta che questo signore dell’Hertfordshire si rifà vivo per una visita. To The Bone, quinto album da solista per Steven Wilson, è il primo con la Caroline Records.
Fino a oggi, Wilson ci aveva fatto sognare il progressive rock più raffinato degli ultimi anni (merito anche della chitarra di Guthrie Govan) immaginando che con il passare del tempo sarebbe diventato ancora più oscuro. E invece no, qui di prog ne resta poco e niente. Ma non è un male, “To The Bone” non legittima il popolo a urlare a gran voce all’alto tradimento. Non è un segreto, l’artista inglese ha sempre rifiutato l’etichetta prog che per forza di cose gli era stata attribuita come un marchio di fabbrica. Steven Wilson è dotato di un potere creativo difficile da riscontrare nella maggior parte degli artisti del nostro tempo e quest’album è un viaggio nel miglior rock, pop, funk che si possa fare nel mercato musicale.
Così, Wilson ci dà il suo personale messaggio di benvenuto all’interno del suo mondo con la title track, che inizia con un breve monologo sulla prepotente affermazione della verità individuale, assoluta e inconfutabile da chiunque se non da noi stessi e che sembra spianare la strada a un album dalla manifattura impeccabile ma pur sempre più accessibile rispetto ai precedenti. Solo in apparenza, però: solo svariati ascolti potano a scoprire come l’intero album sia l’ennesima sfida lanciata da Steven Wilson all’ascoltatore, che si ritroverà a scoprirne i dettagli ignorati fino a un attimo prima.
“To The Bone” è figlio del nostro tempo, sospira alle orecchie segreti e verità, narra le antiche gesta dei prepotenti e degli ignoranti, le urla inascoltate dei sociopatici (Pariah), dà voce a chi tenta faticosamente di resistere a un mare che, troppo spesso, si trasforma in cimitero (Refuge), esplode in un amore malato e ossessivo (Song Of I), grida la paura del terrorismo nascosta in ogni angolo di quotidianità (People Who Eat Darkness).
Steven Wilson dà vita a quest’album come se fosse solo: testi (ironici e provocatori), voce (meravigliosamente pulita e inalterata), co-produzione (di concerto con Paul Stacey), chitarre, basso, tastiere e mixaggio. Chiama a sé conoscenze vecchie come Ninet Tayeb che dona a Pariah (primo estratto dall’album), Black Tapes e People Who Eat Darkness (nei backing vocals) quel pizzico di sensualità ultraterrena fedele ai lunghi inverni di Steven Wilson.
Con Song Of I, definita dallo stesso artista “il lato più elettronico e oscuro” dell’album, mette in risalto la presenza vocale, distaccata e intrigante, di Sophie Hunger. Permanating è senza dubbio la traccia meno wilsoniana dell’album, ma risulta impossibile non farsi piacere un brano “suonato come se fossero gli ABBA e la Electric Light Orchestra come se a produrlo fossero stati i Daft Punk”.
“To The Bone” potrebbe sembrare un lavoro incoerente ma è strutturato con una multivalenza così raffinata che penetra nelle ossa, nascondendo qualcosa di velatamente oscuro che esce allo scoperto soltanto con le due tracce finali, Detonation e Song Of Unborn. Stavolta il Lord dell’Hertfordshire ci ha preso in giro, portando il gelo in pieno Agosto.
(2017, Caroline)
01 To The Bone
02 Nowhere Now
03 Pariah
04 The Same Asylum As Before
05 Refuge
06 Permanating
07 Blank Tapes
08 People Who Eat Darkness
09 Song Of I
10 Detonation
11 Song Of Unborn
IN BREVE: 4/5