Concluso il tempo dei Police, la carriera solista di Sting ha stimolato così tanti palati schizzinosi da perdonargli qualche scivolata (“…Nada como el Sol”, “Mercury Falling” e gli album successivi al 1996, senza tralasciare il feat. con Craig David). Onestamente, però, 44/876 è talmente brutto che non si riesce a spiegare l’urgenza che ha scatenato le bellicose intenzioni del bassista inglese, irremovibile nella sua decisione di portare a termine la collaborazione con Shaggy. Perché Shaggy, che di Giamaicano ha solo le origini, oltre a possedere una tonalità vocale oggettivamente fastidiosa, si è sempre approcciato al reggae più da turista che da autoctono.
In perenne limbo tra reggae e hip hop, ha avuto l’enorme botta di fortuna di restare cristallizzato come simbolo di un marchio iconico nei primi anni ‘90; tutto quello che ha avuto seguito alla colonna sonora di quello spot, i cui postumi non sono stati mai del tutto smaltiti, non è andato oltre uno stile ammiccante che invita a bere una piña colada sulle sue ginocchia. Non c’è niente di originale in quest’album, persino la motivazione sottesa al titolo è banale (+44 e +876 sono i prefissi telefonici del Regno Unito e della Jamaica).
L’attacco della title track lascia intuire che non sarà semplice comprendere le motivazioni sottese al disco: da un lato Shaggy, rimarcando le sue origini isolane, riceve una telefonata dal numero di casa Sumner e ne approfitta per invitare il bassista inglese; dall’altro capo del telefono, Sting manifesta la volontà di prendersi una pausa di riflessione dalle politiche britanniche e approfittarne per abbandonarsi a vibrazioni positive, sognando la Giamaica e scomodando il fantasma di Bob Marley.
Don’t Make Me Wait è una confettura reggae cui fa da sfondo la strana coppia a bordo di una jeep a zonzo per Kingston (quantomeno le vendite del singolo saranno destinate al Bustamante Hospital For Children della città). Waiting For The Break Of Day è probabilmente l’unica traccia quantomeno tollerabile di “44/876”, più Sumner e meno Burrel. Stessa considerazione non vale per Dreaming In The USA, che probabilmente raccoglie tutte le brutture di questo mostro a due teste: dal riff di “Roxanne” ai jeans e le sneakers, Elvis e Marilyn, riferimenti springsteeniani e un visto per stranieri che fa sognare la terra promessa.
Tematiche e testi sono al limite dell’imbarazzo, i riferimenti ai mutamenti politici più recenti sono trattati in una forma estremamente semplice, quasi scolastica a onor del vero, perfettamente in linea con la dancehall più recente ma molto lontani dallo spirito che animava il genere in un tempo non molto diverso da questo. Qualcuno potrebbe obiettare “che male c’è”, perché caricare ancora di più un contesto che già di per sé pesa quanto un macigno.
Il motivo è semplice: quando si tratta di due artisti, abbastanza adulti, tra i quali uno in particolare che ha abituato il pubblico a un approccio ben diverso da quello utilizzato nelle hit da spiaggia, alcuni pensieri serpeggiano istintivamente.
Più che la volontà di far uscire qualcosa di accattivante dall’incontro tra due musicisti molto diversi tra loro, “44/786” sembra un album fatto in fretta e furia, pieno zeppo di cliché e melodie elementari degne del peggior tormentone estivo in costante sbattimento per conquistarsi una viralità che non raggiungerà mai. Adesso resta da fare la conta dei danni procurati dall’aver attribuito autorità stilistica a Mr. Lova Lova.
(2018, A&M)
01 44/876 (feat. Morgan Heritage & Aidonia)
02 Morning Is Coming
03 Waiting For The Break Of Day
04 Gotta Get Back My Baby
05 Don’t Make Me Wait
06 Just One Lifetime
07 22nd Street
08 Dreaming In The U.S.A.
09 Crooked Tree
10 To Love And Be Loved
11 Sad Trombone
12 Night Shift
IN BREVE: 1/5