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Suede – The Blue Hour

Non c’è mai stato un tempo per i Suede, troppo in ritardo per la new wave, troppi falsetti per il brit pop, poco bohémien per essere credibili, troppo eleganti per piacere alle ragazzine. Eppure, ci fu un momento in cui erano riusciti a varcare la Manica arrivando a farsi conoscere anche a un pubblico geograficamente penalizzato: “Trash” fu, in assoluto, il primo singolo che acquistai (ovviamente per corrispondenza, non sia mai che fosse disponibile nei negozi catanesi).

Se “Coming Up” del 1996 fu l’unico reale successo della band, l’album che cristallizzò in maniera distorta l’immagine dei Suede agli occhi del pubblico – nonostante l’assenza considerevole di Bernard Butler – “Head Music” (1999) e “A New Morning” (2002), insieme al crack e l’eroina, ne dichiararono lo stato di morte apparente; la storia di ogni band è esattamente la stessa: lotta, successo, eccesso, disintegrazione. Quello che il pubblico non immaginava (e probabilmente neanche Brett Anderson e soci) era che la parabola discendente era destinata non soltanto a risalire ma a prendere una piega completamente diversa rispetto ai ritmi ballabili di “The Beautiful Ones” e alle infiorettature paillettate di “She’s In Fashion”.

The Blue Hour conclude la trilogia iniziata nel 2013 con “Bloodsport” e proseguita nel 2016 con “Night Thoughts”, ed è stato scritto parallelamente a “Coal Black Mornings”, il memoriale autobiografico di Brett Anderson, spin-off della band. Progettato come un movimento in quattordici tracce, “The Blue Hour” non è un concept album ma ha una profondità narrativa pronta a essere vivisezionata. Senza alcuna anticipazione o intenzione ben definita, l’album è sorretto da una sceneggiatura impeccabile e fornisce gli alibi per inquietarsi senza mai svelare la trama: le paure infantili, una cupa narrativa su un bambino scomparso e lugubri terre rurali di confine.

Il trailer del disco inquadra lentamente un uccello morto posato sulla neve; questo stesso senso di distacco e abbandono è riprodotto dall’inconfondibile vocalità di Anderson, dalle sue liriche pittoresche, dalle chitarre ruvide di Richard Oakes, dalle odissee corali della opening track, dagli archi eseguiti dalla City Of Prague Philharmonic Orchestra e arrangiati da Neil Codling insieme al compositore Craig Armstrong (presente anche in “Coming Up”).

Gli arrangiamenti orchestrali non sono l’unica novità per il gruppo inglese: la presenza di stralci parlati (la fine di Wastelands o l’intera Dead Bird, un dialogo tra Brett Anderson e il figlio) favoriscono una percezione squisitamente cinematografica del disco. Forse questo è il tempo dei Suede, così decadente e disilluso e Brett Anderson, oggi, è più affascinante di quanto non lo sia mai stato.

(2018, Warner)

01 As One
02 Wastelands
03 Mistress
04 Beyond The Outskirts
05 Chalk Circles
06 Cold Hands
07 Life Is Golden
08 Roadkill
09 Tides
10 Don’t Be Afraid If Nobody Loves You
11 Dead Bird
12 All The Wild Places
13 The Invisibles
14 Flytipping

IN BREVE: 4/5

Lejla Cassia
Catanese, studi apparentemente molto poco creativi (la Giurisprudenza in realtà dà molto spazio alla fantasia e all'invenzione). Musicopatica per passione, purtroppo non ha ereditato l'eleganza sonora del fratello musicista; in compenso pianifica scelte di vita indossando gli auricolari.