Era il 2019 quando Auerbach e Carney, conosciuti dai più con l’appellativo di The Black Keys, azzardavano uno sguardo indietro per rimettere al centro “un tributo alla chitarra”, invece che… beh, mezzo disco andato maluccio con qualche synth in più. Il risultato, “Let’s Rock”, non è che fosse brutto, ma faceva pensare ad uno dei cliché più tristemente banali della storia del rock: rock band inizia facendo musica audace e pura, smussa gli angoli senza perdere il talento e raggiunge il successo mondiale, prova qualcosa di diverso con risultati altalenanti, fa una bruschissima retromarcia e ripete all’infinito un album mediocre che dice di basarsi sulla formula magica originale e fa più o meno contenti i fan dalle orecchie piene di paraffina.
Hey, non mentiremo: è un metodo che funziona. Cazzo, se è un cliché significa che è stato ripetuto talmente tante volte da entrare nel canone. Chiedetelo a Bono Vox (“The biggest turd in the world”, dicevano quei santi di Trey Parker e Matt Stone in South Park) se funziona: “Pop” (1997) azzardava un approccio danzereccio, ha incassato qualche gazilione di sterline in meno di quello che ci si aspettava e così sono oltre vent’anni che gli U2 ci sfrangiano le appendici con una imbarazzante imitazione di ciò che erano, hello, hello, it’s a beautiful day lalalalalala, stuck in a moment patapim e patapam.
Ma Dan Auerbach e Patrick Carney non sembrano il tipo di persone che mandano a prendere il proprio cappello porta fortuna con un aereo. Sì, la loro musica aveva un po’ perso la strada, e del resto sembravano impegnati entrambi in altre situazioni più interessanti: Auerbach è diventato un produttore di grande successo sia di critica che di pubblico (c’è la sua mano, ad esempio, nel bellissimo disco di Aaron Frazer uscito all’inizio di quest’anno), Carney lo abbiamo trovato a scrivere quel capolavoro di sigla di quel capolavoro di “Bojack Horseman”, e con trasmissioni radio (“Serious Boredom with Patrick Carney”).
E infatti Delta Kream non ha molto a che fare con la mediocrità familiare di “Let’s Rock”, ma invece torna sui passi del profeta, di quello che gli ha indicato la strada sin dall’inizio: Junior Kimbrough, il maestro dell’hypnotic boogie, del cosiddetto “hill country blues”, uno stile di blues originato all’estremo Nord dello stato del Mississippi, sulle colline che confinano con il Tennessee. Uno stile di blues ipnotico, crudo, percussivo, quello stile che gli ha indicato la via all’inizio. “Ah! Ritorno alle origini!”, potrebbe a questo punto esclamare il lettore più cinico. Ma basterebbe ascoltare Do The Romp e paragonarla alla versione presente nell’esordio del duo (“The Big Comeup” del 2002) per capire: lurida, aggressiva, bavosa quella del 2002; matura, sofisticata, ricca di sfumature e con una maggiore proficienza tecnica oggi. Entrambe diverse dall’originale di Kimbrough, entrambe debordanti cuore e anima.
Ecco, quella è la differenza con gli altri: cuore e anima. In “Delta Kream” ci sono undici cover (di Kimbrough, R.L. Burnside, Ranie Burnette, John Lee Hooker, Big Joe Williams e Mississippi Fred McDowell) cariche di anima, ricche di cuore: una band che attacca lo spinotto e si inebria di quel suono che gli ha insegnato a stare al mondo, fanculo se non lo ascolta nessuno, fanculo se è tremendamente passé come del resto lo era quando hanno iniziato. “È stato l’album più facile della nostra carriera” ha detto Carney, e non si fatica a credergli: qui la musica scorre liscia come quell’enorme fiume che taglia l’America a metà, e gli oltre cinquanta minuti che lo compongono potrebbero anche andare avanti all’infinito.
Viene alla mente l’ottimo “Chulahoma”, extended play del 2006 di cover di Kimbrough: all’alba del successo, i Keys non erano più ruvidi come agli esordi ma non sono raffinati come qui. In “Delta Kream”, infatti, suonano come quelle straordinarie band della Chess che portarono il suono del delta e delle colline nelle grandi città come Chicago, influenzando migliaia di musicisti in tutto il mondo; suonano come gli Stones quando erano troppo immersi nel delirio per accorgersi di quanto divinamente stessero suonando. Viene in mente “Blue & Lonesome” (2016), proprio dei Glimmer Twins, altro album straordinario di cover blues che gli Stones sfornarono da ormai over 70. La differenza con quello è che là si percepiva un’enorme onda di rilassatezza, coi lick di Keith e quell’enorme, gigantesco gallo cedrone di Mick ad atteggiarsi come un pavone pur essendo un red rooster, mentre qui invece è la tensione musicale a tenere in piedi l’album, quella straordinaria tensione positiva che tira fuori qualcosa di inenarrabile.
Viene in mente Morrison, quell’adorabile gorilla ubriaco e barbuto che in “L.A. Woman” – del quale abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario poco tempo fa – cantava del “crawling king snake”; si fatica a riconoscerla qui, nell’arrangiamento di Junior Kimbrough che i Keys hanno scelto di usare, dandogli uno swing che si traduce in una diversa sensualità, un diverso significato da quello dei Doors.
Vengono in mente tante cose, perché è questo il blues: memoria. Memoria tramandata di bocca in bocca, di chitarra in chitarra, e trasformata in se stessi. Memoria di storie e di sentimenti altrui, trasformati in sentimenti propri e passati alle prossime mani, alla prossima voce, alla prossima chitarra. Evitiamo patetici discorsi su “ai miei tempi” o “questa trap che ascoltano i giovini d’oggi”, è un discorso sterile, lontano dal senso delle cose. “Delta Kream” non andrebbe ascoltato perché “ai miei tempi”. “Delta Kream” andrebbe ascoltato, da generazioni vecchie e nuove, perché capisce il senso del blues e lo trasporta con sé, donandolo a chi lo ascolta, a chi ha la voglia di capirlo, nella speranza di trovare orecchie, cuori, anime e mani – giovani o vecchie che siano – disposte a continuare a portare avanti questo messaggio straordinario.
(2021, Nonesuch)
01 Crawling Kingsnake
02 Louise
03 Poor Boy A Long Way From Home
04 Stay All Night
05 Going Down South
06 Coal Black Mattie
07 Do The Romp
08 Sad Days, Lonely Nights
09 Walk With Me
10 Mellow Peaches
11 Come On And Go With Me
IN BREVE: 4,5/5