Pensato come un’anteprima delle celebrazioni per il cinquantennale della band, questo London Fog 1966 è la più antica registrazione dal vivo della leggendaria band losangelina, che al London Fog, nightclub dell’attuale West Hollywood, fu house band per qualche mese nel 1966, prima di ottenere un ingaggio qualche porta più a est sul Sunset Boulevard, al Whiskey a Go Go, locale dove diventarono i Doors che conosciamo e amiamo.
Ora, nell’analizzare, recensire, apprezzare quello che è a tutti gli effetti uno straordinario reperto storico, bisogna preventivamente decidere da quale punto di vista porgersi, tra i due possibili: il primo è quello di cercatore di tesori, di ricercatore del rock, di archeologo (poco importa se fan o meno del dionisiaco Jim e dei suoi impareggiabili accoliti – negare l’importanza dei Doors nella storia del rock è un’impresa nella quale si sono cimentati in tanti, fallendo tutti miseramente); il secondo – ancora una volta indipendentemente dal proprio personale apprezzamento per i Doors – è quello da mero ascoltatore, audĭo ergo sum, e quindi che sia un reperto o meno io me ne fotto.
Se ci poniamo dal primo punto di vista, va da sé che non si possa non essere straordinariamente felici del ritrovamento del nastro da parte della fan della prima ora Nettie Peña, che li registrò ai loro esordi – e pare che Nettie abbia perso la registrazione della prima versione in assoluto di “The End”, eseguita in un altro di quei concerti come resident band. La copertina, di rara bruttezza, rappresenta un archive box e all’interno possiamo trovare memorabilia come poster, foto inedite e la scaletta del concerto, manoscritta da John Densmore in persona. L’audio è masterizzato da Bruce Botnick, già tecnico del suono della band (e produttore per il solo “L.A. Woman”) e l’album è contenuto all’interno sia in CD che in vinile. Insomma, un ennesimo lavoro eccelso della Rhino, con la sua sussidiaria usata per le live release dei Doors, la Bright Midnight.
Se invece del lavoro dell’archeologo del rock ce ne volessimo fottere, e volessimo semplicemente ascoltare, quel che ci troviamo a sentire è – a sorpresa – clamorosamente brutto. Quattro ragazzini in un night club che suonano (male) cover blues, niente di più e niente di meno. Morrison sotterrato da Robbie Krieger che urla, stacchi approssimativi, un John Densmore sciatto come un qualunque ragazzino che ha iniziato a suonare da qualche mese. L’idea delle cover blues è peraltro filtrata dall’approccio della british invasion (Animals, Them, Cream) rispetto alla quale il quartetto risulta palesemente inferiore da un punto di vista meramente tecnico, e considerate che parliamo di blues in dodici battute come Baby Please Don’t Go o Rock Me o di pezzi rock’n’roll come Lucille. Quindi nulla di troppo complicato, anzi, una qualunque band da pub dovrebbe riuscire a rendere i pezzi perlomeno dignitosamente, ma non è ciò che qui accade. Poco male, le influenze blues emergeranno, senza filtro british, anni dopo, risultando tra le più originali conseguenze di un genere che ha dato vita ad innumerevoli derivazioni.
Quello che risalta, ad ogni modo, è un entusiasmo e un coinvolgimento quello sì fuori dal comune, nonché i due pezzi al tempo inediti, You Make Me Real (che segnerà il ritorno alle radici blues nel 1970 su “Morrison Hotel”) e Strange Days (che invece rappresenta l’anima più psichedelica che trova voce sul secondo album, omonimo del pezzo). Entrambi sono già perfettamente strutturati, seppur eseguiti in maniera piuttosto approssimativa, e fanno ricordare come questa band di cialtroncelli esagitati e allegri diventerà presto una band assolutamente incredibile, nonché una macchina da guerra dal vivo. E stranisce pensare quanto poco tempo dopo quella band registrerà lo straordinario esordio (del Maggio ’66 il concerto, dei 7 giorni alla fine di Agosto ’66 la registrazione dell’album) e sarà già nel pieno delle proprie forze, eccellente nella performance in studio e assolutamente valida dal vivo (diventerà eccellente anche lì, ma ci vorrà qualche tempo in più). Ma, a ben riflettere, l’intera carriera dei Doors stupisce per le evoluzioni in tempi brevissimi, se si pensa che dall’esordio (che compie 50 anni nel 2017) alla tragica fine di Jim sono passati appena 4 anni.
Fasulla la presentazione come “più antica registrazione dei Doors conosciuta” (ci sono i demo registrati ai World Pacific Studios nel Settembre 1965, seppur con line-up incompleta), “London Fog 1966” rimane comunque un documento straordinario di un capolavoro in divenire. Ma dubitiamo fortemente che lo vorrete ascoltare più di una volta.
(2016, Rhino / Bright Midnight)
01 Tuning (I)
02 Rock Me
03 Baby, Please Don’t Go
04 You Make Me Real
05 Tuning (II)
06 Don’t Fight It
07 I’m Your Hoochie Coochie Man
08 Strange Days
09 Lucille
IN BREVE: 1,5/5