“Servirebbe un bel po’ di tempo da trascorrere assieme, suonando e semplicemente ritrovandosi nello stesso posto, per scoprire dove ci troveremmo oggi a livello musicale”. Così un anno fa rispondeva il bassista Joe Lally a una domanda su un’ipotetica reunion dei Fugazi, in un’intervista rilasciata al Mucchio Selvaggio in occasione dell’uscita dell’esordio discografico dei Messthetics.
Per adesso il ritorno dei Fugazi sulle scene resta soltanto un desiderio di fan e addetti ai lavori, ma batteria e basso dei washingtoniani (Brendan Canty e Joe Lally), unitamente al chitarrista Anthony Pirog, sembra ci abbiano preso gusto a saggiare il loro livello di affiatamento musicale. E così, a poco più di un anno di distanza dall’uscita dell’opera prima, i Messthetics raccolgono i frutti di questo ispirato flusso compositivo dando alle stampe il sophomore dal titolo filosofico: Anthropocosmic Nest. Pubblicato con la Dischord di Ian MacKaye come l’omonima prima fatica, in comune con l’esordio questo secondo lavoro ha anche la stessa modalità di registrazione: in presa diretta, salvo qualche sporadica sovraincisione, con l’unico fine di cristallizzare il fecondo feeling artistico del trio statunitense.
È evidente come le sessions di incisione siano un luogo vivo di contaminazione, in cui i background di Lally, Canty e Pirog si intersecano generando punti di connessione tra l’onirismo post rock, la fluidità jazzy e psych e l’asprezza del post hardcore. Il titolo del disco, tra l’altro, potrebbe avere una chiave di lettura in tal senso: l’antropocosmismo, difatti, secondo la teorizzazione del filosofo russo Sagatovskij è “la filosofia dell’armonia in sviluppo”, in altre parole la sintesi degli aspetti positivi delle precedenti correnti filosofiche. Sia chiaro, i Messthetics non hanno l’ardire di pensarla in maniera così perentoria, tuttavia, in piccolo, tale sintesi non è altro che la fusione dei propri microcosmi artistici.
Rispetto a “The Messthetics”, “Anthropocosmic Nest” si presenta più incline ad asperità sonore di quanto non lo fosse stato il recentissimo predecessore. L’abrasività di Insect Conference e la ruvidezza sghemba dei due minuti e mezzo di Scrawler ne attestano la discontinuità. L’iniziale Better Wings si pone a metà strada tra la muscolarità delle accelerate garage e i suoni eterei del post rock, con prevalenza delle prime. Drop Foot ha un’anima fugaziana, con riff orientaleggianti che ne disegnano la traiettoria.
Tuttavia non mancano episodi che richiamano le sonorità più jazzy del primo disco: Section 9 con il suo refrain chitarristico di radioheadiana memoria – ci si scorgono echi di “In Limbo” – ma soprattutto Pay Dust con i suoi abbozzi sonori avanguardisti. Because The Mountain Says So e la conclusiva Touch Earth Touch Sky si ascrivono tra i momenti post rock del disco con le loro trame sonore dilatate.
A parere di chi scrive, “Anthropocosmic” Nest appare come una sorta di side B di “The Messthetics”, meno immediato all’ascolto ma con un potenziale espressivo avanguardistico da non sottovalutare.
(2019, Dischord)
01 Better Wings
02 Drop Foot
03 Section 9
04 Scrawler
05 The Assignment
06 Pay Dust
07 Pacifica
08 Because The Mountain Says So
09 Insect Conference
10 La Lontra
11 Touch Earth Touch Sky
IN BREVE: 3,5/5