Sarà che il produttore Rick Rubin ha resuscitato artisti la cui carriera era a un passo dall’oblio come Metallica, The Mars Volta e Neil Diamond – non a caso lo chiamano il Buddha del suono – o sarà che, come ha dichiarato Vito Roccoforte dei Raptures a Lizzy Goodman nel libro “Meet Me in the Bathroom: Rebirth and Rock and Roll in New York City” sulla scena newyorkese dei primi duemila, “there were tons of great bands before them and after them, but… there’s before The Strokes and after The Strokes”, ma, indipendentemente dal fatto che meritassero o meno lo status che gli era stato destinato, da allora gli Strokes sono diventati il punto di riferimento e il metro di paragone con il quale tutte le altre band – compresi loro stessi – sono state misurate.
La possibilità di tornare sulle scene con nuovo materiale dopo “Comedown Machine” del 2013 sembrava sempre più improbabile invece, ancora una volta, hanno sovvertito regole e aspettative con The New Abnormal, sesto disco dopo una lunga pausa, che porta con sé il peso di sette anni di progetti solisti, sperimentazioni, distanze apparentemente incolmabili e modi diversi di interpretare la musica. Nessun titolo è mai stato così profetico e, al contempo, così capace di descrivere cosa dovrà aspettarsi l’ascoltatore: un trionfo di mescolanze streetwise apparentemente ammassate, come coraggiosi graffiti sulla vernice scheggiata dei muri di una New York City ’01, che è sempre più un ricordo lontano.
La scelta del dipinto “Bird On Money” di Basquiat come cover del disco, altro non è che un brillante e intenso riflesso visivo del suono che andremo ad ascoltare, lo stesso caos che i cinque della 7th Avenue si portano dentro per l’eterno confronto con lo zeitgeist del rock “Is This It?” (2001) che, come un’ombra, li segue. Ma chiunque dava per spacciate “le ultime rockstar”, finite nell’oblio tra abusi e rotture, stavolta rimarrà deluso. I detrattori verranno conquistati da una cascata di melodie anni ‘80, sintetizzatori e chitarre suonate alla strokes-maniera e le liriche di Casablancas, colme di attesa e abbellite dal suo pragmatico distacco, spazzeranno via l’ultimo dei perplessi.
L’album esplora alcune nuove direzioni, tra le tracce migliori sicuramente quelle con il suono più familiare e riconducibile alla band come The Adults Are Talking, accattivante e sobria con i suoi assoli di chitarra e l’iconico croondi Casablancas, Not The Same Anymore che ricorda “Suck It And See” degli Arctic Monkeys e ancora il sogno a occhi aperti di Selfless, con la sua chitarra valzer che accompagna Julian mentre canta: “I don’t have fun without your love / Life is too short but I will live for you”.
Prendiamo Brooklyn Bridge To Chorus, un disco-synthpop in cui la voce di Julian continua a ripetere “I want new friends, but they don’t want me” appoggiandosi sulla base etch-a-synth come se fosse intrappolato all’interno di un videogioco arcade anni ’80. Il sound stavolta è quello di una discoteca glam rock con il neon del cesso a intermittenza di Bad Decisions, che per il ritornello prende spudoratamente in prestito “Dancing With Myself” da Billy Idol, aggiungendoci una linea di basso à la New Order. In questi brani, così come altri in passato, gli Strokes non hanno mai rifiutato l’idea di attingere o prendere ispirazione da altri musicisti, fa parte di ciò che sono, fa parte del loro fascino.
Uno dei singoli principali di questo disco, At The Door, è una masterizzazione lenta guidata dal synth, una base verosimilmente Voidz(iana) con l’aggiunta di una performance vocale di Casablancas straziante. Il sound di Eternal Summer si muove incerto tra Police, Chic e Prince prima di calarsi in un lussureggiante numero da discoteca per più di sei minuti, nel tentativo di indirizzare i divertenti viaggi psichedelici – “I can’t believe it life is such a funny journey, psychedelic” – su una spiaggia assolata di Malibu.
Il ritmo dell’album rallenta nella seconda metà mentre la band esplora sonorità più piacevoli e pacate. Proprio come le già citate At The Door e Not The Same Anymore, alcuni pezzi necessitano di un secondo ascolto, solo allora rivelano una bellezza non scontata. Inizia con una batteria garage e l’inconfondibile chitarra di Albert Hammond Jr. Why Are Sundays So Depressing, che strizza un po’ l’occhio a ”Ize Of The World” del 2006 e ai Velvet Underground di Lou Reed.
La musica degli Strokes attinge da sempre da quell’intraducibile “fattore X” che li ha resi così iconici, fattore che, nella traccia di chiusura Ode To The Mets, non poteva essere più tangibile trovandoci di fronte a una delle più belle canzoni dell’album. In questo elegante, malinconico e strano finale, Casablancas & Co. allentano gli arrangiamenti e si aprono a qualcosa di inarrestabile e non catalogabile, lasciando al cantante la libertà di vagare: “Drums please, Fab”, dice Julian a Fabrizio Moretti, strappando un sorriso nostalgico a chi li ha attesi per tutto questo tempo. Finalmente si respira ciò che negli anni era venuto a mancare, una band. “I’m gonna find out the truth when I get back”, canta Julian, ma noi questa verità in fondo la conosciamo da sempre.
(2020, RCA)
01 The Adults Are Talking
02 Selfless
03 Brooklyn Bridge To Chorus
04 Bad Decisions
05 Eternal Summer
06 At The Door
07 Why Are Sundays So Depressing
08 Not The Same Anymore
09 Ode To The Mets
IN BREVE: 4/5