Il successo di un artista ha ormai un intervallo di ascesa molto più veloce rispetto al tempo in cui si non esisteva lo streaming musicale e l’uso dei social era limitato a una ridotta fetta della popolazione mondiale. A dirla meglio, si tende a individuare fin troppo velocemente ambasciatori indiscussi di una determinata tendenza, senza effettivamente darsi il tempo materiale per metabolizzare qualcosa che ha stuzzicato la nostra attenzione o rendersi conto che altri meccanismi hanno fatto in modo che questo accadesse comunque. Poi, com’è naturale che sia, è sempre il tempo a decidere la persistenza o meno di quello status di intoccabilità. A ognuno il suo destino: in quell’Olimpo di speranze folk del nuovo millennio, esistono artisti come Bon Iver o Father John Misty, le cui carriere si sono meritatamente cementificate, o come Ryan Adams, dissoltosi sotto le ceneri delle sue distorsioni sessuali, non tenute debitamente a bada (ironia della sorte, era prevista per oggi l’uscita del diciassettesimo album dell’artista statunitense). E poi c’è Kristian Mattson, The Tallest Man On Heart.
Mattson, incoronato come un visionario nel 2010, con la sua seconda uscita “The Wild Hunt” rimase saldamente ancorato a quel podio, almeno fino al 2015, giocando con vocalità spezzate, chitarre acustiche pizzicate e uno storytelling sufficientemente elaborato, con quella matrice marcatamente dylaniana che faceva suonare il tutto, alternativamente, come una bestemmia o come una mossa commerciale ben realizzata. Poco importa, al pubblico non interessava: The Tallest Man On Heart piaceva e basta.
Bene, undici anni e quattro album più tardi Kristian Mattson gira ancora attorno la stessa identica formula all’interno di un panorama musicale che si muove alla velocità della luce. I Love You. It’s A Fever Dream. procede all’interno delle coordinate tracciate da “The Wild Hunt” (2010) e “There’s No Leaving Now” (2012), con il breve interludio di “Dark Bird Is Home” (2015) con cui il cantautore svedese aveva provato a guardare oltre la sua confort zone acustica, sperimentando composizioni più dinamiche e flirtando con alcuni effetti ambient.
Un passo indietro a uno stile più familiare, sicuramente per lui, un po’ meno per un pubblico che forse cerca più stupore e meno nostalgia. È una decisione più adatta a un’artista decennale, proveniente da una lunga pausa, che a un cantautore popolare con cinque album all’attivo, proprio quando ci si aspetta di vederlo entrare nel suo apice creativo. Ascoltando l’album si percepisce una forte sensazione di rinuncia, alla curiosità, al dinamismo e al rischio per fare mestamente ritorno a quell’approccio rivelatosi vincente nel 2010. Una opening track (Hotel Bar) dall’intro eccessivamente vedderiana, linee di basso appena accennate, pianoforti e reverberi come a voler attribuire la rarità di una versione demo (The Running Styles Of New York) e un arrangiamento straziante in What I’ve Been Kicking Around non salvano l’album dalla noia e dalla ripetitività.
“I Love You. It’s A Fever Dream.” è un disco folk splendidamente crudo, ma qui sta tutto: non ci saremmo aspettati nulla che fosse meno di questo da The Tallest Man On Earth. Mattson non ha ancora raggiunto il vero apice creativo della sua carriera, quantomeno non oggi. Questa è solo una raccolta di buoni pezzi composti da un’artista che ha già sperimentato la stessa cosa in passato, facendola meglio.
(2019, Rivers / Birds)
01 Hotel Bar
02 The Running Styles Of New York
03 There’s A Girl
04 My Dear
05 What I’ve Been Kicking Around
06 I’m A Stranger Now
07 Waiting For My Ghost
08 I’ll Be A Sky
09 All I Can Keep Is Now
10 I Love You. It’s A Fever Dream.
IN BREVE: 2,5/5