I Tindersticks compiono 25 anni. Fa un po’ effetto per chi li ricorda principalmente per quella “Tiny Tears” che, ormai 17 anni fa, si faceva notare dal grandissimo pubblico apparendo in un episodio dei Sopranos. Da lì in poi (nonostante il loro omonimo capolavoro fosse vecchio di quattro anni e fosse stato ai suoi tempi acclamato dalla critica) lo sgradevole aggettivo figurato “cinematico” viene accompagnato alla loro musica. Loro raramente hanno negato questa natura “da colonna sonora”, anzi, spesso hanno prestato la loro musica a film o manifestazioni culturali. Ma mai si erano spinti a commissionare a un numero di registi indipendenti un video per ognuno dei pezzi del proprio album, questo The Waiting Room: progetto ambizioso e che di solito non interessa quasi a nessuno, soprattutto se si tratta di un gruppo di nicchia e non contiene 19enni seminude che ballano a ritmo di unz unz.
È chiaro che i Tindersticks non raggiungeranno mai il grande pubblico ed è altrettanto chiaro che non ne hanno interesse. Questo 25ennale progetto non ha mai prodotto un album anche lievemente sotto la media, né ha mai lontanamente deluso o annoiato chiunque sia stato interessato alla loro musica. Stuart A. Staples, con il suo peculiare, nasale, profondo e lamentoso baritono, raramente si svincola dai temi romantici, dove per romantici non intendiamo di certo John Cusack che aspetta l’amata con un boom box sulla capoccia, ma sehnsucht, struggimento, poeti francesi; ed è quasi incredibile come un gruppo che in 25 anni ha trattato, musicalmente e tematicamente, così pochi temi sia riuscito a non ripetersi quasi mai, a far emergere un carattere peculiare in ognuno dei propri album.
Qui particolarmente in forma, Staples e soci aprono con una cover di Follow Me, colonna sonora de “Gli ammutinati del Bounty”, strumentale che apre la pista al consueto idillio di storie d’amore, stavolta particolarmente riuscite. Che si parli, infatti, del feroce duetto con Jehnny Beth delle Savages (We Are Dreamers!) o del dolce dialogo con Lhasa De Sela di Hey Lucinda (registrato nel 2009, prima della prematura scomparsa di quest’ultima), i Tindersticks sfoderano il meglio della loro produzione per festeggiare le nozze d’argento.
Non solo: è un album estremamente vario, specialmente per gli standard tindersticksiani, sfoggiando pezzi influenzati da funk e afrobeat (Help Yourself), lussuriosi brani art pop fatti di narrativa, piano e fiati (How He Entered) e una conclusiva Like Only Lovers Can che affianca la voce profonda di Staples al Wurlitzer, per dare un’atmosfera sognante al loro classico pop da camera in contrasto con gli oscuri presagi di pezzi bui e tempestosi come Were We Once Lovers?, dove la voce di Staples vibra infuocata e drammatica (“How can I care if it’s the care that’s killing me?”).
Dicevamo che in 25 anni non hanno mai avuto un album debole, i Tindersticks, seppur mai allontanandosi troppo dal paradigma (ma mai ripetendolo pedissequamente), né mai si sono piegati a logiche che gli avrebbero consentito di ampliare il proprio pubblico; con questo “The Waiting Room” raggiungono un picco qualitativo (forse eguagliato solo dal già citato esordio del 1995) che speriamo continuino a toccare nel prossimo futuro.
(2016, City Slang / Lucky Dog)
01 Follow Me
02 Second Chance Man
03 Were We Once Lovers?
04 Help Yourself
05 Hey Lucinda
06 This Fear Of Emptiness
07 How He Entered
08 The Waiting Room
09 Planting Holes
10 We Are Dreamers!
11 Like Only Lovers Can
IN BREVE: 4,5/5