Ci sono delle volte in cui al recensore medio galoppa in testa, imbizzarrito, il fatidico dubbio concettuale-metodologico: “che ci stiamo a fare noi quando un disco vive di vita propria e parla di sé meglio di come lo potrebbe fare un qualsiasi giornalista musicale, magari con la puzza sotto il naso e almeno una scorta di riferimenti e citazioni custoditi nella tasca di dietro dei pantaloni?”. Così, anche questa nostra critica nasce, già in partenza, con un piede zoppo. Anche in questa recensione, infatti, aleggia lo spettro dell’inutilità o dell’approssimazione. Perché sarebbe corretto, a mò di regola, che per rinforzare un’analisi di Empty Houses Are Lonely di Tom Brosseau, cantautore del Nord Dakota, si faccia riferimento a Bob Dylan e al suo fantasma musicale; sarebbe lecito snocciolare almeno un paragrafo sui trasversali riferimenti vocali alla buonanima di Jeff Buckley; sarebbe cosa buona e giusta raccontare che quello di Tom Brosseau è un disco che avrebbe potuto concepire Nick Drake se fosse rimasto in vita fino ad oggi. O ancora, si sarebbe potuto discutere che la malinconia è come un’ombra che, grazie alla complicità della lampada appollaiata sul tavolo, si prende gioco dei nostri sentimenti, soprattutto quando l’appartamento è solitario e abbandonato a se stesso. Si potrebbe ancora dire che c’è una specie di “mood” blues (Mary Anne, How To Grow A Woman From The Ground) nella chitarra acustica di Brosseau o nell’armonica a bocca, e che il violoncello (Heart Of Mine) e qualche leggerissima frustatina di batteria (Dark Garage) fanno da perfetto corredo al canto androgino del singer americano. Ascoltando “Empty Houses Are Lonely”, infine, si potrebbe anche arrivare alla conclusione che all’interno della casa vuota, avvolta nella campagna (vedasi la copertina), Tom riporti in vita veri e propri brandelli di tradizione americana in materia di country, blues e cantautorato a “stelle e strisce”. Ecco, di regola si sarebbe dovuto dire tutto questo per parlare di “Empty Houses Are Lonely” di Tom Brosseau, ma che ci stiamo a fare noi quando un disco riesce a vivere di vita propria? Nulla, assolutamente nulla. Forse solo a consigliarvi di mettere da parte questa pagina e di ascoltare, piuttosto, la languida atmosfera minimale di un cantautore americano con il suo pugno di ballate delicate, tristi e così belle da non meritarsi di venire essiccate dalle parole.
(2006, Fat Cat)
01 Fragile Mind
02 Empty Houses Are Lonely
03 Hurt To Try
04 Mary Anne
05 Dark Garage
06 Heart Of Mine
07 The Broken Ukulele
08 How To Grow A Woman From The Ground
09 Lonesome Valley
10 Bars
A cura di Riccardo Marra