Attivi da oltre quindici anni (la fondazione risale al 1990), i Trans Am non davano segni di vita da tre anni, ovvero da quando uscì per Thrill Jockey (da sempre etichetta dei nostri) “Sex Change”, altro tassello del mosaico artistico del trio di Washington D.C.. Da annoverarsi tra i pionieri del math-rock più trasversale e sperimentale, i Trans Am fanno della miscela stilistica croce e delizia della loro scrittura. Aumentata con gli anni la lunghezza delle composizioni, il che ha indotto ad una naturale riduzione della quantità delle canzoni incluse nelle tracklist dei loro album, con Thing Phil Manley, Nathan Means e Sebastian Thomson ribadiscono la loro totale avversione a restare rinchiusi entro i soffocanti confini di un’equazione standard. Il vocoder è lì a conferire un taglio androide a Black Matter, acido synth-pop futurista che è parente prossimo di Naked Singularity, sfiorato di striscio da voglie danzettare. Se la title-track è un breve intermezzo che suona più come succinto omaggio a Klaus Schulze, i bollori kraut ci investono con tutta la loro tracimante aura allucinatoria in Heaven’s Gate, vero e proprio turbine di percussioni e laceranti scie di distorsioni ultra-riverberate. Tutta la coda finale dell’album è la sezione più intrigante di “Thing” (ma anche quella che lo spacca nettamente in due), dove emergono con forza ascendenze finora rimaste sopite nella prima parte. Se Arcadia ha una chitarra ritmica di pinkfloydiana memoria (anche se, nel suo complesso, mira più ad Alan Parsons Project), Apparent Horizon mastica l’AOR e lo sputa in veste aliena (complice il sempre presente vocoder) e Interstellar Driftammicca a più riprese a qualcosa dei Porcupine Tree, ma non sapremmo dire con esattezza a cosa. E non dimentichiamoci che Maximum Yield sono i Sunn O))) a cui sono state asportate le viscere marce. Qua e là, sparsi come piccoli frammenti in mezzo la sterpaglia, si sentono pure reminiscenze di Rush e Yes. Insomma, quello preparato dai Trans Am è un qualcosa a metà tra la succulenta macedonia e la sutura di arti profanati dall’obitorio per dar vita ad un Frankenstein sonoro che non lascia di certo indifferenti. Elastici e riluttanti alla chiusura in un univoco universo stilistico, il rischio in cui però incorrono i Trans Am riguarda la coesione di un lavoro che cambia registro troppo velocemente e che, se non viene messo a fuoco con la dovuta lucidità, spiazza e lascia disorientati. Certo, conoscendo i Trans Am questo non ci sorprende, ma chi si approccia per la prima volta al loro meticcio mondo sonoro dovrà prima munirsi di mappa e bussola per tentare di orientarsi. E non è assodato che non si perda.
(2010, Thrill Jockey)
01 Please Wait
02 Black Matter
03 Naked Singularity
04 Thing
05 Bad Vibes
06 Heaven’s Gate
07 The Silent Star
08 Arcadia
09 Apparent Horizon
10 Interstellar Drift
11 Maximum Yield
12 Space Dock
A cura di Marco Giarratana