Alla fine, ci ho pensato su, e ho concluso che sono confronti che non hanno senso se applicati su di un piano temporale: Ty Segall è un artista che si può considerare come il principale interprete della cultura pop rock della sua generazione, perché lui è un esponente di questa generazione e quello che fa è principalmente istinto e attitudine, ma è anche il frutto di una formazione non solo musicale ma culturale a 360 gradi che, certo, riprende elementi che non sono solo patrimonio di questa generazione, ma che comunque lui rielabora secondo quella che è la sua formazione e la realtà contemporanea che ci circonda.
Anche le sue scelte artistiche possono essere comprese solo se lo consideriamo come figlio di quest’epoca: Ty Segall s’impadronisce di tutto quello che lo circonda e lo trasforma in arte. Così manipola i mezzi e approfitta letteralmente della maggiore facilità nella produzione e diffusione di materiale discografico, della maggiore facilità nell’incontrare gli altri, dando sfogo al suo talento creativo. Sa che l’arte pop è mutevole, così come muta la cultura e la società in cui viviamo, e lui riesce a interpretarla in tutti i suoi aspetti. Lo fa secondo il suo punto di vista, ovviamente, e questo può piacere oppure no: il fatto è che tutto ciò risulta sempre tremendamente interessante.
First Taste è un disco che Ty Segall ha immaginato e concepito sin dal principio senza chitarre: una decisione che non significa ovviamente aver rinnegato il suono delle chitarre elettriche (lasciamo stare tutte le cazzate sulla fine del rock che infatti non significano niente); ci troviamo di fronte a una scelta artistica che inizialmente ha spiazzato anche i suoi collaboratori storici (i soliti Ben Boye, Emmett Kelly e Charles Moothart più ovviamente Mikal Cronin, che nel disco suona il sassofono e il pianoforte, e la vocalist Shannon Lay), tutti però poi prontamente arruolatisi alla causa in un copione che viene scritto, diretto e prodotto da Ty Segall e si traduce in un ennesimo grande successo.
Ty Segall nel disco suona un po’ tutti gli strumenti, tra questi ovviamente anche strumenti a corda come il mandolino oppure il bouzouki, che chiaramente assumono un suono che poi non è lontano da quello delle chitarre elettriche, per come vengono usati e distorti all’interno del complesso delle composizioni. Hanno un format che è sicuramente di ispirazione garage, ma poi propongono suoni pop rock psichedelici vintage anni Sessanta (con tanto di rimandi alla musica indiana tipici dell’epoca) e allo stesso tempo un fascino e glamour accattivante, ricco di fuzz e groove sintetici e vere e proprie allegorie armoniose sinfoniche.
È una vetta differente da quella che Ty Segall ha raggiunto con “Freedom’s Goblin” (2018), che probabilmente è e resta ad oggi il suo disco della maturità, ma probabilmente artisticamente e sul piano complessivo non gli è inferiore, anzi ne rinverdisce ove ce ne fosse bisogno il genio e lo rilancia in una forma ancora più visionaria e astratta. Una forma allo stesso tempo concettuale e intellettuale in un’opera sinfonica e collettiva perché inclusiva, che suona come se George Martin avesse sovrainciso uno sopra l’altro tutti i nastri di “Revolver”, “Sgt. Pepper” e “Magical Mystery Tour” e poi questi fossero stati suonati a testa in giù con i piedi attaccati al soffitto e la testa dentro il tubo di un vecchio grammofono.
(2019, Drag City)
01 Taste
02 Whatever
03 Ice Plant
04 The Fall
05 I Worship The Dog
06 The Arms
07 When I Met My Parents Pt. 1
08 I Sing Them
09 When I Met My Parents Pt. 3
10 Radio
11 Self Esteem
12 Lone Cowboys
IN BREVE: 5/5