A distanza di tre anni da “The Assassination Of Julius Caesar” (2017), meravigliosa declinazione di dark synthpop, tornano Krystoffer “Garm” Rygg e i suoi Ulver con le idee abbastanza chiare: “We are wolves / Under the moon / This is our song / We’re ready to go”. Così si apre Flowers Of Evil, ennesimo disco in studio della band norvegese, sulle scene oramai da ventotto anni. Per l’occasione, inoltre, è uscito anche un piccolo volumetto dal nome “Wolves Evolve: The Ulver Story”, che ripercorre la carriera dei norvegesi attraverso foto e interviste alla band.
I lupi di Oslo in queste tre decadi hanno dimostrato di essere dei mutaforma sonori, fluttuando tra generi diametralmente opposti – esordi black metal, poi il contatto con la musica elettronica ha fatto virare verso l’electro ambient, il trip hop, la new wave, fino agli ultimi risvolti synthpop – senza che questo abbia rappresentato un tentativo di ingraziarsi certo mainstream. No, è stato un viscerale bisogno di Garm e dei suoi vari compagni di viaggio alternatisi post ’98, di assecondare questa linea evolutiva che si è dipanata dopo il confronto con certa elettronica (Autechre, Fennesz) e certi pionieri del suono (Coil su tutti).
“Flowers Of Evil” è un disco che riparte dal precedente full lenght: synthpop oscuro e sensuale che avvolge l’ascoltatore in questa patina di cold new wave che ricorda i Depeche Mode – altezza “Black Celebration”, certi Human League e certa ambient elettronica scandinava – tutto il catalogo della Erased Tapes Records. Rispetto a “The Assassination Of Julius Caesar” le tracce sono più compatte, più ferme nella struttura canzone con meno divagazioni sonore avant-garde ed electro wave. L’uso delle chitarre è ridotto al minimo eccetto che per One Last Dance – suonate per l’occasione da Christian Fennesz, non nuovo a collaborazioni con i norvegesi – e la marziale Machine Guns And Peacock Feathers. A dirigere i suoni in cabina di regia, oltre all’onnipresente Krystoffer Rygg, troviamo Michael Rendall dei The Orb e Martin Youth Glover.
Dal punto di vista dei contenuti, la scelta di affidare a riferimenti letterari, cinematografici e più in generale artistici, chiavi di lettura della contemporaneità non è una novità: qui il simbolismo e l’esoterico si incontrano nell’accostamento dei fiori del male di Baudelaire con la struggente drammaticità dell’epilogo della vicenda di Giovanna D’Arco – la copertina, infatti, riprende una scena del film muto francese “La Passion de Jeanne D’Arc”. Altri richiami cinematografici li troviamo anche nelle liriche della dark ballad Russian Doll: il film è “Lilja 4 Ever”, del 2002, sulla tratta di esseri umani nel Baltico.
Tempi compassati e atmosfere umbratili ammantano Apocalypse 1993: il pezzo racconta dell’assedio del governo americano al Mount Carmel Center, luogo in cui vivevano i Branch Davidians, setta cristiana apocalittica guidata da David Koresh che affermava di essere un profeta e un discendente del Re David. Toni sinistri accompagnano la sintetica Little Boy: pezzo dalla grande attitudine pop che ricorda maggiormente il disco precedente data la coda strumentale lisergica. Chiudono il lotto la diapositiva neorealista in salsa new wave di Nostalgia e la finale A Thousand Cuts: una ballata struggente in bianco e nero che cita il Pasolini di Salò.
Tirando le somme, siamo in presenza di un’altra prova di spessore per gli Ulver: il mantenimento di una coerenza sonora poteva portare con sé i rischi della realizzazione di un doppione di “The Assassination Of Julius Caesar”. Questo non si è verificato perché Rygg e soci hanno spostato l’attenzione sul songwriting, più centrale e calzante. L’ispirazione e l’esperienza hanno fatto il resto.
(2020, House Of Mythology)
01 One Last Dance
02 Russian Doll
03 Machine Guns And Peacock Feathers
04 Hour Of The Wolf
05 Apocalypse 1993
06 Little Boy
07 Nostalgia
08 A Thousand Cuts
IN BREVE: 3,5/5