Gli Ulver sono uno dei gruppi più innovativi ed imprevedibili che la musica ci offre da parecchi anni a questa parte; la butto giù pesante, ma è ciò che penso. Come molti, e credo non tutti, sanno, partiti da un trittico di album prettamente orientati verso lidi metal (black, folk per la precisione) si inabissarono, tutto d’un tratto, in territori impensabili per una band squisitamente estrema come loro: rifiutarono ogni forma di intrappolamento di genere per scandagliare le zone più aride e sperimentali della musica elettronica (da “Nattens Madrigal”, autentico capolavoro black metal, a “Themes From William Blake’s The Marriagge Of Even And Hell”, altro capolavoro ma che era tutt’altro che metal, mischiando rock industriale, ambient, elettronica, musica jazz, musica da camera, passarono soltanto due anni, ma fu come se fossero trascorsi secoli, tanto è il distacco tra l’uno e l’altro). Ed andarono avanti così, tra colonne sonore per film improbabili e fuori da schemi convenzionali, ad altri capolavori (“Perdition City” – trip hop con influenze jazz da brivido – e “Blood Inside” – raschiante introverso ingarbugliamento di avanguardia elettronica, rock e prog settantino – da una parte, e “Shadows Of The Sun” – ambient noir, bagnata da rigogliosi accenni jazz d’emozione improponibile – dall’altra). Fino ad oggi, in un periodo in cui il buon genio Garm ha deciso finalmente di far uscire allo scoperto la sua creatura con concerti vari (prima d’ora, nei vari anni d’attività non era mai stato allestito uno show dai qui recensiti), assemblando una line-up che vede l’aggiungersi di quell’altro genio che sta alla base dei misconosciuti Guapo: Daniel O’Sullivan; facendo uscire, dopo tre anni, questo altro tassello meraviglia dal nome Wars Of The Roses. Come detto, da quando abbandonarono i sentori black e metal, non si è saputo più cosa, ad ogni uscita, il gruppo ci potesse proporre, cambiando direzione ad ogni uscita discografica. Anche questa volta le attese su una nuova forma musicale espressiva sono state rispettate, anche se in parte: è un tassello importante della loro carriera, che azzerderei definire d’assestamento, dove vengono presi spunti da ogni album post ’98 della band stessa, per creare un qualcosa di chiaro stampo “tributo”, anche se le novità non mancano, ed è ovvio che sia così. Si sentono echi da “Perdition City” (la meravigliosa Island) da “Themes From William…” (la voce femminile di Providence e le percussioni quasi industrial di quest’ultima), da “Blood Inside” soprattutto (l’avanguardia elettronica e prog delle superba September IV, la stessa Island, e l’opener February MMX) e da “Shadows Of The Sun” ovviamente (l’ambient spettrale e metafisico di brani quali Norwegian Gothic, e la meraviglia finale che risponde al nome di Stone Angels), tutti mescolati a creare ciò che gli Ulver, con le loro mille facce, sanno donarci: emozioni di alto livello. Le novità stanno tutte nella facile presa che questi brani hanno sull’ascoltatore: mai prima d’ora la fluidità era stata così di casa, le composizioni risultano snelle, emozionanti, ma si liberano di quella pesantezza che permeava i precedenti lavori, facendoli elogiare come lavori solo per pochi eletti. Più commerciale (nel senso buono del termine), più fruibile, meno elitario, pop quasi in alcuni frangenti, con emozioni ed atmosfere viscerali e caldissime, capaci di donarci pace, malinconia, spiritualità, cupe illusioni. Gli Ulver sono tornati, non con il solito capolavoro, ma con un album di transizione, e questo s’era capito, ma pur sempre pieno di quell’anima avvolgente e misteriosa che sanno donare solo loro, geni incontrastati della musica contemporanea.
(2011, Kscope)
01 February MMX
02 Norwegian Gothic
03 Providence
04 September IV
05 England
06 Island
07 Stone Angels
A cura di Lucio Leonardi