Come sono uscite le band dall’indie degli anni ’10? O malissimo, come la maggior parte dei gruppetti colori-fluo-e-chitarrine che hanno avuto il loro momento di gloria intorno al 2006 inserendo un loro brano in una serie di MTV, o maturando un suono sempre più adulto e ricercato disco dopo disco. I Vampire Weekend sono l’esempio migliore della seconda ipotesi, insieme a pochissimi altri come, andando a memoria, Arctic Monkeys e Arcade Fire.
Ma se già possono venire in mente dei passi falsi e dischi quantomeno “bruttini” nella carriera di questi ultimi due, non si può non constatare la sempre crescente qualità dei lavori della band di Ezra Koenig, dovuta anche al fatto che lui sia riuscito a confermarsi come una delle figure più influenti nel music business a livello mondiale. Il percorso di Koenig è stato finora una costante ascesa verso la cerchia dei grandi che l’hanno musicalmente e idealmente ispirato fin dall’inizio della sua carriera, artisti e pensatori come David Byrne, Paul Simon, George Harrison e James Murphy.
Dal riff solare di “A-Punk” ne è passata di acqua sotto i ponti: Ezra Koenig è diventato un produttore di spicco chiamato a produrre in studio gli artisti più disparati, come Beyoncé e Kanye West, conduce un celebre programma radio su Apple Music, ha creato una serie animata su Netflix, supportato con passione la campagna elettorale di Bernie Sanders e collaborato con ogni artista immaginabile, da SBTRKT in “New Dorp, New York” a Karen O degli Yeah Yeah Yeahs (altro relitto indie anni 2000) per la bellissima colonna sonora del film “Her”, tutto ciò portando avanti una delle band dal suono più originale e riconoscibile degli ultimi vent’anni.
Nel cammino verso l’Olimpo dei grandi autori rock-pop mancava però un disco ambizioso e di ampie vedute, lontano dall’indie giocherellone chitarrine-e-coretti degli esordi e più ambizioso dell’ultimo “Modern Vampires Of The City” (2013), che comunque aveva già segnato un significativo passo in avanti ed era valso ai Vampire Weekend un Grammy come Miglior Album Alternativo nel 2014. Il disco della maturità e della consacrazione definitiva è arrivato dopo sei lunghi anni di silenzio: Father Of The Bride, anticipato da tre coppie di singoli a partire dall’inizio del 2019, è il primo lavoro ufficiale dopo l’uscita dal gruppo del polistrumentista Rostan Batmanglij, che è stato rimpiazzato da 4-5 turnisti (giusto per capire il valore che rivestiva all’interno della band).
La sua abilità da compositore però non manca in questo nuovo album, perché nei credits si legge che sono suoi gli arrangiamenti orchestrali del singolo Harmony Hall, un pezzo pop perfetto sotto ogni aspetto, dal testo al ritornello fino alle parti di pianoforte e chitarra, che basterebbe per promuovere a pieni voti questo nuovo album ed eclissare ogni altra uscita del 2019. E invece, dopo tutta questa attesa, di pezzi ce ne sono ben diciotto per un totale di un’ora di musica nuova, ed è veramente difficile trovare un brano venuto male anche tra quelli minori e più brevi della tracklist.
Oltre i già citati nuovi turnisti, che accompagneranno la band anche nei prossimi tour (in cui si eviterà accuratamente quello schifo di Italia) Koenig ha chiamato all’appello per “Father Of The Bride” il produttore Ariel Rechtshaid, già responsabile della qualità superiore di “Modern Vampires Of The City” rispetto ai primi due album della band, ma anche Danielle delle Haim, che fa i cori in tutto l’album oltre a duettare col frontman in due brani, e Steve Lacy, il giovane talento dei The Internet.
Nonostante ci sia dentro di tutto, si sente che il disco è indubbiamente una creazione dei Vampire Weekend, che da sempre sono stati capaci di mischiare influenze eterogenee dal mondo in modo organico, con la differenza che ora hanno capito di essere divenuti sempre più grandi ed è ora di pagare un tributo a quell’Olimpo di numi tutelari sopra elencati: scorre forte il Paul Simon del disco omonimo nella solarissima This Life, c’è il George Harrison post-India nel mantra con la slide guitar Big Blue, la psichedelia beatlesiana in Sunflower e My Mistake, i Fleetwood Mac nel brano di apertura Hold You Now, co-firmato (e si sente) da Hans Zimmer. E poi una lunga e gioiosa sperimentazione a base di reggae, country, r’n’b, fusion in un album che sprigiona da tutti i pori vita ed euforia primaverile, riuscendo a essere immediato e fruibile senza noia nonostante la lunghezza.
Il disco migliore di una band che ha spinto oltre i propri confini sonori con un risultato che, a meno non si rincoglioniscano tutti di botto senza saper più riconoscere “il bello”, ci ricorderemo per lunghissimo tempo.
(2019, Spring Snow / Columbia)
01 Hold You Now (feat. Danielle Haim)
02 Harmony Hall
03 Bambina
04 This Life
05 Big Blue
06 How Long?
07 Unbearably White
08 Rich Man
09 Married In A Gold Rush (feat. Danielle Haim)
10 My Mistake
11 Sympathy
12 Sunflower (feat. Steve Lacy)
13 Flower Moon (feat. Steve Lacy)
14 2021
15 We Belong Together (feat. Danielle Haim)
16 Stranger
17 Spring Now
18 Jerusalem, New York, Berlin
IN BREVE: 4,5/5