A parte qualche raro caso (gli orripilanti Eternal Tapestry), quest’anno Thrill Jockey ha piazzato un bel gruzzolo di album di livello, vedi alla voce Arbouretum, Barn Owl, The Skull Defekts, ma soprattutto quel geniaccio di Alexander Tucker che con “Dorwytch” ne ha combinata un’altra delle sue. Tocca ora ai White Hills dimostrare di che pasta sono fatti dopo aver fatto rizzare gli antennini a parecchi appassionati di psichedelia negli ultimi anni. Viaggiatrice tra le magmatiche contorsioni dello space rock di ultima generazione, la formazione di New York aveva raggiunto con “Heads On Fire” e “White Hills” una forma quasi perfetta in equilibrio tra Amon Duul II, Hawkwind, Can e Ozric Tentacles. Ora imbocca la strada della totale destrutturazione, o almeno così sembra. Se conoscete il percorso degli Oneida, concittadini e amici dei White Hills, capirete a cosa stiamo alludendo. L’influenza kraut sta prendendo il sopravvento, si sta allargando come olio viscoso tra i tessuti connettivi di una band che non ha ancora perso del tutto il vizietto di rifilare qualche colpetto di rock rozzo e abrasivo (Upon Arrival). Le reiterazioni si fanno più cocciute, la potenza fisica sbiadisce, seppur di poco, tra i recessi oscuri di un approccio più cerebrale. Tuttavia il frastuono, meglio se condito da stridori pungenti, non è accantonato. H-p 1, titolo criptico accompagnato da una copertina che non gli è da meno, rappresenta quindi la svolta stilistica che i White Hills ricercano da quando hanno emesso i primi, assordanti vagiti. Aprono con una The Condition Of Nothing che ci asfalta il cranio con quel basso corposo che porta in sella un Dave Weinberg dal timbro sempre più narcotico e allucinato. Nonostante l’evidente minimalismo che impregna le progressioni melodiche (?) di ogni singolo brano, le architetture rimangono complicate e gli strati continuano a sovrapporsi. Proprio quando “H-p 1” si fa avvincente, i White Hills decidono di spezzare la trama con un duetto da surrealismo post-industriale: A Need To Know è un ectoplasma che galleggia nel buio di una stanza vuota, in Hand In Hand siamo percossi dai barriti solitari di un elefante intrappolato in un iceberg che cola a picco. Si aggirano dalle parti degli incubi degli Einsturzende Neubauten. Ma prima di arrivare a ciò ci imbattiamo in una No Other Way che ha il tono maestoso degli Om (quando s’incazzano) e nelle ostinazioni squisitamente Neu! di Paradise, invero piuttosto impregnate di cliché kraut, ma ci piacciono quindi ce ne freghiamo di brutto. Poi Monument sgambetta su echi tribali mentre le turbolenze che l’attraversano degradano fino a ridursi a scie schiumose e in realtà siamo già a pancia piena quando arriviamo sulla soglia dei diciassette minuti della title-track: qui andiamo in visibilio perché attacca un riff tanto molesto quanto doom, tanto ammantato di psichedelia quanto drogato che per qualche istante immaginiamo gli Spacemen 3 fagocitati dai Cathedral. È davvero un trip perché i White Hills elaborano la materia tra rallentamenti sostenuti da un basso quasi Black Sabbath per poi risorgere in tutto il loro splendore tra assoli Seventies ed emersioni di pura materia sonica che sfavilla. Alla fine ci scappa un bel ruttino di soddisfazione. Non è un capolavoro, ma qui si gode e anche tanto.
(2011, Thrill Jockey)
01 The Condition Of Nothing
02 Movement
03 No Other Way
04 Paradise
05 Upon Arrival
06 A Need To Know
07 Hand In Hand
08 Monument
09 H-p 1
A cura di Marco Giarratana