Nota: Questa recensione riprende in parte, soprattutto, due articoli estremamente utili sulla vita e l’opera di Julius Eastman, pubblicati di recente. Si tratta di: “Julius Eastman, A Misunderstood Composer, Returns To The Light” (Tom Huizenga, NPR); “From a Composer’s Resurgence, a Masterpiece Rises” (Zachary Woolfe, The New York Times). Il redattore ringrazia profondamente gli autori. Data la sua ignoranza in materia, non avrebbe potuto fornire informazione più concreta.
Non ci si senta in errore se il nome di Julius Eastman, calcando appieno dalle sue origini, doesn’t ring any bell. Per adesso. Aspettatevi Eastman in numerose retrospettive e programmazioni. Aspettatevi Eastman nelle colonne sonore dei film. Aspettatevi Eastman nei film. Aspettatevi un interesse crescente e dirompente nei suoi confronti, che ci auguriamo questo cammino encomiabile del collettivo Wild Up possa aiutare ad esplodere. Dunque, prima di tutto: chi è (o meglio era) Julius Eastman?
Nato a Manhattan nel 1940. Talento precoce al pianoforte. Frequenta il Curtis Institute Of Music di Philadelphia, terminando il percorso di studi nel 1963 con un recitaldi sue proprie composizioni. Nel 1966 debutta da solista al Town Hall di New York. Comincia a collaborare con John Cage, Morton Feldman, Lukas Foss – amicizia che gli permette di suonare e insegnare al Center Of The Creative And Performing Arts della State University Of New York, a Buffalo. La sua fama, seppur limitatamente, cresce. Il suo carattere, originariamente introverso, fiorisce in un dedalo di empatia ed emozioni. Alla fine degli anni ’70, torna a vivere nella Grande Mela. Collabora con Pierre Boulez, con Meredith Monk. Il suo atteggiamento diventa imprevedibile, autolesionista. Abusa, probabilmente – secondo molti amici – di alcool e droga. Viene sfrattato dal suo appartamento nell’East Side per insolvenza. A metà degli anni ’80, se ne perdono le tracce. Comincia a vivere da senzatetto dalle parti del Tompkins Square Park. Muore in circostanze ignote, ad appena 49 anni, in completa solitudine. La sua scomparsa viene rintracciata e resa nota soltanto dopo otto mesi dal decesso.
Se così posta può sembrare una storia già sentita, la parte più difficile è stata volutamente sinora estromessa. Perché Julius Eastman era un compositore di musica d’avanguardia, nero e omosessuale in un’America totalmente irrisolta su tutte e tre le questioni prese separatamente. Figuriamoci insieme. Figuriamoci per uno il cui motto era: “To be what I am to the fullest: Black to the fullest, a musician to the fullest, and a homosexual to the fullest”. Figuriamoci per uno che intitolava i suoi brani: “Crazy Nigger”, “Dirty Nigger”, “Evil Nigger”, “Nigger Faggot” o “Gay Guerrilla”. Impossibile, allora, immaginare un lieto fine.
Eppure oggi, a distanza di trent’anni, il suo nome sembra più vivo che mai. Merito soprattutto di un’antologia illuminata, pubblicata nel 2005 con l’anagramma “Unjust Malaise”. E delle ormai non più rare interpretazioni di Femenine, l’opera forse più speranzosa e aperta del Maestro. Il merito dell’affioramento in superficie di questo indiscutibile capolavoro è da attribuire soprattutto a due persone. La compositrice Mary Jane Leach, amica di Eastman e posseditrice dell’unica registrazione esistente di una performance del Novembre 1974, ad Albany, con l’autore in persona al pianoforte. E il discografico Ian Fenton, che nel 2016 l’ha pubblicata per la sua Frozen Reeds. Rispetto a quella seminale interpretazione (e ad altre ultimamente rincorsesi), l’esperimento dei Wild Up muove un passo sicuramente differente. Anzitutto: scompone (quantomeno sulla carta) l’unica pièce di settanta minuti in dieci parti. Ma soprattutto: non lesina in esuberanza, ricchezza e pienezza dell’arrangiamento, conferendole per la prima volta un tono in cui l’ardore spesso tormentoso, caratteristico di altre già menzionate tracce, si pacifica e fluidifica senza smarrire il proprio impeto. Cinque pagine di spartito in un flusso continuo originariamente scritto per fiati, marimba/vibrafono, sonagli, pianoforte e basso – che qui si gonfia di sassofoni, corni, percussioni, voci e incursioni free-jazz.
Prima parte di un’antologia che si comporrà di una serie (per questo in apertura si parlava di cammino encomiabile), questa di “Femenine” è semplicemente la riproduzione più fervida, attuale ed estroversa di un absolute masterpieceche non sfigurerebbe in compagnia di altri più fortunati e geniali colleghi (vedi: Philip Glass). Ere geologiche e psicologiche prima che la gender theorydiventasse parte di uno spettacolo, un musicista afromericano omosessuale si presentava sul palco in abiti femminili, sfidando il mondo da solo per mostrarsi com’era. Non dimenticate il suo nome, non dimenticate il suo lascito. Perché un disco così ci insegna non ad apprezzare qualcosa, ma ad apprezzare la vita.
(2021, New Amsterdam)
01 Prime
02 Unison
03 Create New Pattern
04 Hold and Return
05 All Changing
06 Increase
07 Eb
08 Be Thou My Vision (Mao Melodies)
09 Can Melt
10 Pianist Will Interrupt Must Return
IN BREVE: 5/5