Lo scenario nel quale cresce 154 dei (o degli) Wire (Colin Newman, voce/tastiere, Bruce Gilbert, chitarra, Graham Lewis, basso, e Robert Gotobed, batteria) è quello della fine del punk, ancora a terra, nel 1979, in una pozza di sangue fresco e sussultante di terminazioni nervose. La musica del rigetto s’era sciupata come un cane randagio. Tutto in pochi anni, dal ’76 al ’79. E l’eredità che lasciò, dopo la sua morte, s’espresse nelle sonorità di numerosi gruppi che ne condividevano, sì, la rabbia e ne proseguivano il percorso di rifiuto, ma che scelsero di farlo con un umore decisamente meno ribelle e più nichilista e con l’arte non più come nemica, ma come compagna. La new wave di New York, ad esempio. La cosiddetta “blank generation” (generazione vuota) e poi, qualche anno dopo, il dark. I Wire, da Londra, si ritrovarono nel bel mezzo di questo passaggio: dai guaiti strazianti del punk morente (che parteciparono a soffocare con i ventuno pezzi “voltagabbana” contenuti in “Black Flag” del ‘77) ai primi vagiti della contagiosa “nuova onda”. “154”, così, è un disco duro. Con chitarre spietate, autodistruttive, fumi allucinogeni. Un andamento che a tratti si fa dilatato, impastato di sintetizzatori e tastiere antesignane degli anni ‘80, in altre circostanze s’impenna della batteria a marcia sanguinolenta di Robert Gotobed (Two people in a room) proprio in perfetto sapore wave. La voce di Colin Newman è cruda, il suo canto è inconsolabile, schifato e spesso si insabbia in parlati da reading “beat” come in I should have known better o The other window (quest’ultima davvero una anticipazione del dark inglese). Ma è in brani come The 15th, A touching display, Single K.O. e On Returning che si riconosce l’importanza epocale dei Wire. Scorci malati, tappeto tastieristico grigio e basso febbricitante, così si presenta “On returning”. Pezzo che potrebbe essere contenuto in un disco come “Three Imaginary Boys” dei Cure e che più in generale mostra un retrodatazione di certe sonorità post punk spesso associate esclusivamente alla decade degli eigthies. Vedi per altri versi anche Indirect enquires: un incubo di tre minuti con chitarre elettriche possedute, spettri mostruosi ed un mood ghiacciato horror (il debutto dei Bauhaus è del 1980). I Wire sono così fra quelli che, finito il punk, lo sotterrarono senza una lacrima o forse con una risata grondante lacrime. “154” è uno di quei dischi da ascoltare per meglio orientarsi nella, spesso spiazzante, cronistoria del rock. Quella che vive di brevi passaggi ma anche di macroscopici paradigmi. Dopo il punk, in sella alla new wave, non ancora dark. I Wire.
Nota: “154” è l’ultimo disco della prima fase dei Wire. Nel 1980, infatti, la band si scioglie. Da quel momento Newman prosegue come solista (“A-Z” il suo primo disco del 1980), Gilbert e Lewis creano i Dome, progetto di musica ambient, e di Gotobed si perdono le tracce. I quattro si ritroveranno sette anni dopo, nel 1987, con l’album “The Ideal Copy”. Il primo della seconda fase dei Wire.
(1979, Harvest)
01 I should have known better
02 Two people in a room
03 The 15th
04 The other window
05 Single K.O.
06 A touching display
07 On returning
08 A mutual friend
09 Blessed state
10 Once is enough
11 Map ref. 41°N 93°W
12 Indirect enquires
13 40 versions
– bonus tracks –
14 Song I
15 Get down (parts I & II)
16 Let’s panic later
17 Small electric piece
18 Go ahead
A cura di Riccardo Marra