Esiste un significato di musica liquida, carente di tatto e olfatto, creata per essere ascoltata in assenza di supporti fonografici tradizionali: questa è la nostra percezione della musica, oggi. Ma c’è anche un’altra definizione di musica liquida, destinata a essere percepita dalla testa in giù, che non vibra, ma scivola come fosse acqua.
Così è sempre stato per alcune correnti dell’arte minimale e così è per Yann Tiersen, probabilmente uno dei pochi artisti noti al grande pubblico ancora molto prolifico all’interno del filone. ALL, decima composizione dell’autore di Brest, è un prolungamento naturale del precedente “EUSA” (2016), corrispettivo bretone della minuscola isola di Ouessant incastrata tra la Cornovaglia e la Bretagna e bagnata dal Mar Celtico. L’aggiunta di sperimentazioni rispetto ad altri album di Tiersen è un dettaglio che a tratti può non piacere e, d’altronde, cozza un po’ con il background tematico e compositivo dell’album, legato e realizzato in perfetta connessione con la natura e l’ambiente.
A dispetto di questo, il disco, nella sua interezza è un piccolo viaggio percorso attraverso il finestrino di una macchina; quella sensazione descritta perfettamente da Simone Sbarbati in un articolo pubblicato su un magazine online, in cui l’autore si domandava se esistesse, in qualche lingua, una parola per indicare quella peculiare sensazione che provi di notte, da bambino, sul sedile posteriore dell’auto dei tuoi genitori. ll tutto è più della somma delle singole parti: il simbolismo delle tracce, ogni singola linea di confine tra le stesse,le registrazioni che inframezzano pianoforte, voci, cori, chitarre, fanfare tentano di spiegare con il solo udito il motivo della loro presenza lì e ora.
È Tempelhof che apre l’album, un miscuglio agrodolce tra pianoforte, synth e risate di bambini, registrate all’ex aeroporto del Terzo Reich che oggi ospita, tra molte altre strutture, il centro di accoglienza per migranti più grande della Germania. Il finale della traccia è incalzato da chitarre elettriche e synth che levigano il terreno al romanticismo di Koad, mentre un fascio di violini e chitarre distorte accompagnano verso Erc’h, componimento dal sapore celtico.
E così via, le tracce scivolano una dopo l’altra, lungo tutto il corpo, alternando fraseggi di sacralità strumentale a cori rigorosamente in lingua bretone, leitmotiv, quest’ultimo, di tutto l’album.I titoli, di cui alcuni assolutamente intraducibili, derivati da forme linguistiche arcaiche ormai in disuso, fanno tutti riferimento alla cosmogonia e all’interdipendenza tra uomo e natura: Bloavezhioù (l’intervallo di tempo che impiega la terra a compiere un giro completo), Erc’h(neve), Heol(sole), Gwennilied(rondine), Koad(legno).
Il tutto è più della somma delle singole parti, si è detto prima, prendendo in prestito il principio fondante la psicologia della Gestalt.Così è “ALL”, una serie di stimoli sonori, intervallati da una manciata di minuti e destinati a produrre la percezione di un solo elemento che si muove nello spazio.
(2019, Mute)
01 Tempelhof
02 Koad (feat. Anna von Hausswolff)
03 Erc’h (feat. Ólavur Jákupsson)
04 Usal Road
05 Pell (feat. Emilie Tiersen)
06 Bloavezhioù
07 Heol
08 Gwennilied (feat. Denez)
09 Aon
10 Prad
11 Beure Kentañ
IN BREVE: 3,5/5