L’anno non è iniziato esattamente come ognuno di noi si sarebbe aspettato, ma almeno dal punto di vista delle uscite discografiche inizia già a dare buoni frutti: l’ultima novità è rappresentata dagli Yard Act, quartetto di Leeds fondato nel 2019. Il loro primo EP “Dark Days”, uscito esattamente un anno fa, aveva stuzzicato la curiosità di chi segue da vicino l’evoluzione della moderna ondata post punk, fatta di quei prolifici Viagra Boys, Fontaines D.C., Shame, Idles e soci vari che, disco dopo disco, continuano a regalarci soddisfazioni gratuite, e guadagnato inoltre il plauso di Elton John, ricambiato di recente dalla band con una live cover della sua “Tiny Dancer”.
Uno dei punti di forza del gruppo è l’alternanza intelligente di brani più ricchi e coinvolgenti, ispirati alle prime produzioni dei capostipiti Wire e Gang Of Four, a tracce più scarne e incentrate essenzialmente sulle parole del frontman James Smith, tra spoken word/rap/streams of consciousness à la Dry Cleaning e Sleaford Mods, mantenendo alta l’attenzione, di conseguenza il secondo dettaglio fondamentale, che li accomuna ulteriormente agli ultimi citati, sono i testi irriverenti, aspri e intrisi di sarcasmo surreale, e che nel caso di The Overload traggono linfa vitale dallo scenario che circonda i quattro, stravolto e dominato dalle conseguenze della Brexit e della pandemia.
Accolgono l’ascoltatore in grande stile i ritmi dinamici e le chitarre agili della title track, valido biglietto da visita con cui la band ha iniziato a presentare il debut, che guarda in direzione dei colleghi Shame, rallentando leggermente con l’incedere sostenuto di basso e i guitar riff taglienti sempre in primo piano di Dead Horse, amaro sfogo senza sconti contro i cosiddetti “architetti” della Brexit. Appare chiaro da questi primi pezzi che “il sovraccarico” citato nel titolo sia quello del malcontento della società, schiacciata nella morsa degli ingranaggi dell’economia e delle sue mille contraddizioni e bugie.
Tra i momenti salienti sono da citare i suoni tribali delle percussioni e le funk guitar che sfumano nella batteria elettronica e nei tocchi sintetici di memoria krautrock dell’ipnotica e anticapitalistica Payday, la più breve ed elettrica Witness (Can I Get A?), che strizza l’occhio ai primissimi Arctic Monkeys, le reminiscenze hip hop dell’ottima Land Of The Blind e il black humor disarmante e pop di Pour Another, che va ad attingere influenze danzerecce in casa Happy Mondays.
L’unico neo, a voler cercare un difetto o un presunto tale, potrebbe essere la minimale e pedante Rich, ma l’album riacquista immediatamente tono con la successiva The Incident, riportando il focus sulle chitarre, sfondo anche della grottesca Quarantine The Sticks. I sei minuti e mezzo della riflessiva Tall Poppies sfumano in un flusso di coscienza che, al pari delle liriche della placida 100% Endurance, caratterizzata da vibes indie rock, si concentra su temi più profondi e sul (non) senso della vita.
In poco più di mezz’ora il debutto degli Yard Act riesce ad apporre la sua firma in calce alla lista dei lavori da ricordare di questo 2022, puntando un riflettore sulla band, in particolar modo sulla sua versatilità, e sul suo avvenire. Chi scrive vorrebbe concludere sostenendo che sarebbe molto interessante vederli all’opera dal vivo, ma ogni commento a riguardo, al momento, sarebbe superfluo, e come il buon Artemio, il “Ragazzo di campagna” interpretato da Renato Pozzetto, si limita ad un vago, generico ed astratto (ma ben più sarcastico): “Ho interessanti prospettive per il futuro”.
(2022, Island)
01 The Overload
02 Dead Horse
03 Payday
04 Rich
05 The Incident
06 Witness (Can I Get A?)
07 Land Of The Blind
08 Quarantine The Sticks
09 Tall Poppies
10 Pour Another
11 100% Endurance
IN BREVE: 4/5