Diversi artisti o gruppi, come prevedibile, hanno ritenuto di dover raccontare in musica l’esperienza del Covid-19 e in particolare modo quello che ha significato il lockdown, l’isolamento, la solitudine. Pubblicazioni di questo tipo abbondano e sicuramente ne usciranno delle altre, mentre si aspetta quella che sarà un’ondata di uscite letterarie dedicate di ogni tipo, magari salvo quelle di carattere fantascientifico, ambito dove il tema della “pandemia finale” è già stato abbondantemente trattato. Mi aspetto più testi in chiave romanzata e comunque pop, anche perché il pubblico non sembrerebbe interessato ad andare a fondo in analisi di tipo sociale o che vadano al di là del racconto dei giorni della reclusione. Come ricercare una sorta di pathos.
Per quanto riguarda la musica, invece, la maggior parte delle produzioni dedicate di questo periodo, si può dire sia abbastanza “naif”. Sono del resto dei lavori che non hanno richiesto lunghi tempi di elaborazione e che si sono concentrati sul raccontare un momento specifico. Perché, diciamolo, si trattava di cogliere il momento oltre che di battere il ferro finché è caldo. Oppure assolutamente il contrario, dato che i tour estivi sono stati tutti annullati. Nel campo musicale quindi il risultato, rispetto a quello che ci si aspetta in campo letterario, è meno “pop” e più orientato ad aspetti di carattere contemplativo o sperimentale/estemporaneo, e questo succede anche nel caso di un gruppo come gli Yo La Tengo, che invece negli ultimi anni si erano adagiati verso una forma di dream pop piuttosto facile che aveva ampliato la platea dei loro ascoltatori, rinnovandola.
Riunitisi a Hoboken, New Jersey, ovviamente rispettando le norme restrittive legate alla diffusione e al contrasto del Covid-19, Georgia Hubley, Ira Kaplan e James McNew si sono messi in cerchio attorno a un microfono in una stanza vuota e in una decina di giorni, tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio, hanno registrato un lungo EP (per quanto le due cose possano sembrare in contraddizione l’una con l’altra) intitolato We Have Amnesia Sometimes e uscito per Matador.
Il dischetto è qualcosa di completamente diverso rispetto alla lunga produzione discografica del trio, effettivamente si tratta di un set di musica sperimentale psichedelica e concettuale diviso in cinque tracce (una per ogni giorno della settimana, dal lunedì al venerdì), dove l’approccio selvaggio più autentico del gruppo (prima della svolta dreamy, che personalmente non ho mai apprezzato) muta forma in composizioni ambient distensive (James And Ira Demonstrate Mysticism And Some Confusion Holds), macchiate come una vecchia pellicola di una polaroid lavata con la varechina (James Gets Up And Watches Mourning Birds With Abraham), immancabili eco drone meccanografici (Georgia Thinks It’s Probably Okay), fino a sfociare in forme semplificate di krautrock à la Popol Vuh e visioni à la Werner Herzog con le due tracce conclusive (Georgia Considers The Two Blue Ones e Ira Searches For The Slide, Sort Of).
Giustamente visionario e “suonato” – sarà proposto nello stesso format anche dal vivo, “We Have Amnesia Sometimes” si ricollega a un certo approccio che s’era ampiamente diffuso nella musica alternative degli USA tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo, ma senza nessuna pretesa particolarmente intellettuale. Piace per tutte queste ragioni.
(2020, Matador)
01 James And Ira Demonstrate Mysticism And Some Confusion Holds (Monday)
02 Georgia Thinks It’s Probably Okay (Tuesday)
03 James Gets Up And Watches Mourning Birds With Abraham (Wednesday)
04 Georgia Considers The Two Blue Ones (Thursday)
05 Ira Searches For The Slide, Sort Of (Friday)
IN BREVE: 3/5