James Yorkston (classe 1971) è uno dei compositori e musicisti più ispirati di questi ultimi anni. È uno scrittore di canzoni anche particolarmente prolifico, oltretutto, che solo pochi mesi fa ha pubblicato il suo ultimo LP da solista (“The Route To The Harmonium”) ma che nell’ultimo decennio, appena terminato, ha raggiunto i punti più alti di una produzione eccellente quando ha inaugurato questo progetto. Yorkston/Thorne/Khan è appunto un trio, un incontro tra lo scozzese Yorkston, il contrabbassista jazz Jon Thorne (Lamb) e il maestro suonatore di sarangi e cantante hindustani Suhail Yusuf Khan, che per noi occidentali è il nome meno noto ma che abbiamo imparato a conoscere per la sua grandezza nei due dischi precedenti del progetto.
Chi conosce già questo progetto sa che ci muoviamo in una linea di confine molto sottile tra la tradizione folk britannica, la musica hindustani e il canto devozionale sufi, arrangiamenti musicali che sono a metà tra progressive, jazz e primitivismo americano con risultati che sono semplicemente eccezionali. In questo senso Navarasa: Nine Emotions ha un limite di fondo, che sta proprio nel fatto che apparentemente non introduce nulla di nuovo rispetto ai due album precedenti. È un disco meno sperimentale, sicuramente non un disco “pop” in senso stretto, ma un album di musica folk che ha un carattere vintage dato quell’imprinting new age che rimanda per forza di cose a impostazioni e ispirazioni psichedeliche degli anni Sessanta/Settanta.
Sarebbe altresì il caso di soffermarsi su come la musica britannica e quella hindustani si siano poi contaminate reciprocamente nel corso degli anni, fino a diventare un fenomeno pop grazie a Beatles e Rolling Stones, ma questo è solo un tema in un quadro più ampio. In verità, ad esempio, alcune tracce potranno ricordare ad ascoltatori più sensibili alcune composizioni di Michael Gira come “Angels Of Light”: ci riferiamo a pezzi come The Shearing’s Not For You e Song For Oddur, ma anche alla strumentale The North Carr.
Chiaro che altrove sia invece quello più “indiano” il campo di riferimento: Sukhe Phool e Thumri Bhairavi sono canzoni che brillano della luce che filtra attraverso le tende all’interno di una stanza scura in un pomeriggio d’estate e fino riempire l’intero spazio. Il tono sale discretamente in pezzi che hanno carattere compositivo circolare come Westlin Winds e l’allegorica Waliyan Da Raja.
Appare incomprensibile o comunque poco riuscito Twa Brothers, una sorta di cantilena marinaresca accompagnata da esercizi vocali jazzati, mentre la conclusiva e lunga Darbari è una specie di composizione sacrale solo strumentale e forse la canzone più interessante del lotto, per quanto sia ovviamente la meno pop e la più “classica” nel senso autentico del termine. La prova, a parte tutto, di capacità compositive e tecniche del trio che non sono sicuramente comuni.
In definitiva, questo qui non è un disco che delude, anzi può sorprendere e piacere molto – persino moltissimo – a chi non abbia mai ascoltato i due lavori precedenti del trio. Ma non ha la stessa ispirazione o comunque, ricercando nuove possibilità, non riesce bene allo stesso modo nell’amalgama tra le diverse componenti. Diciamo che se dovessimo consigliare, vi diremmo di provare “Everything Sacred” (2016) e “Neuk Wight Dehli All-Stars” (2017), allora ascolterete quest’album con uno spirito diverso, comprendendone i limiti che altrimenti potrebbero apparire strutturali del progetto.
(2020, Domino)
01 Sukhe Phool
02 The Shearing’s Not For You
03 Thumri Bhairavi
04 Westlin Winds
05 Song For Oddur
06 The North Carr
07 Twa Brothers
08 Waliyan Da Raja
09 Darbari
IN BREVE: 2,5/5