“Mistakes are good, and perfection is a sin”.
Perdonateci se rubiamo l’incipit al The Guardian per introdurre la recensione del quarto album dei Young Fathers ma, ironicamente, la massima che guida la via del trio di Edimburgo (data da “G” Hastings, uno dei tre elementi del trio) è la perfetta definizione della loro musica, il caotico, indefinibile misto musicale che pesca da hip hop, soul, pop, noise, gospel e quant’altro gli capiti sotto mano, senza mai lontanamente calcolare un suono che possa risultare appetibile commercialmente o persino comprensibile, afferrabile. La comprensione della massima di cui sopra, di questo semplice concetto guida, da sempre valido soprattutto nel rock e del quale, ad esempio, hanno fatto stile di vita gli Stones, è la chiave dei continui risultati artistici ottenuti dai Fathers.
Assenti in LP da ben cinque anni, tornano con Heavy Heavy sulla strada tracciata dal disarmante “Cocoa Sugar” (2018), certamente la loro opera più compiuta: un vortice gioioso di emozioni, che trascina l’ascoltatore in cento direzioni diverse, fin quando la testa non gira, i colori si mischiano nelle retine per produrre immagini psichedeliche e la gioia ha pervaso ogni fibra del corpo.
A differenza del suo predecessore, la cui lavorazione potrebbe definirsi eufemisticamente “tortuosa”, la lavorazione di “Heavy Heavy” è stata invece al totale opposto: spontanea, libera. Ed il risultato è “heavy”, ma non nel senso di pesante, o di particolarmente lungo. Anzi, è forse il disco più leggero del trio e certamente il più breve, con soli 32 minuti di musica. No, è “heavy” nel senso di intenso, nel senso di densità di emozioni. E difatti, la spontaneità dell’album viene fuori nella sua qualità di essere quasi dei canti di protesta nei campi di cotone, di coro gospel in una chiesa presbiteriana, persino delle urla di nativi americani o di una tribù centrafricana (Ululation).
“Heavy Heavy” riesce ad avere questa curiosa tensione tra la gioia e la rabbia, tra la calma e la foga, un concetto ribadito in diverse occasioni ma in particolare nell’eccellente singolo Geronimo (“Geronimo get on, get off”) al quale alla delicata e melodiosa voce che intona il ritornello viene giustapposta una graffiante voce che gli fa eco in maniera quasi rabbiosa.
Musicalmente non ripete quella clamorosa progressione che da “White Men Are Black Men Too” (2015) aveva portato a “Cocoa Sugar”, ma lo è forse un atteggiamento estremamente libero, un portare carica politica a gesti della quotidianità (“I need to catch more fish, baby / I need to eat more rice”). Scema forse di intensità nel finale (o forse è la prima metà dell’album a essere talmente intensa da far sfigurare il resto?), ma possiamo dire serenamente che gli Young Fathers con il loro quarto album si confermano una forza musicale dirompente e inimitabile, una realtà della quale c’è fortemente bisogno in un mondo musicale omologato e alla ricerca di una perfezione artificiale nauseabonda.
— 2023 | Ninja Tune —
IN BREVE: 4/5