Se c’è una qualità che brilla in modo particolare sulla sigla Massive Attack, fra le innumerevoli messe in mostra nel corso della loro carriera/discografia, è quella di essere riusciti sempre a non ripetersi, ad evolversi costantemente, tanto musicalmente quanto concettualmente, mantenendo comunque inalterate le direttive del loro percorso sonoro e seguendo un ideale fil rouge che li ha portati fino ai nostri giorni sempre più forti e rilevanti. I Massive Attack chiudevano il vecchio millennio con un lavoro, “Mezzanine” (1998), che li aveva definitivamente elevati al rango di faro di un’intera generazione di artisti ibridi, a cavallo tra i generi e le tecnologie, senza confini da oltrepassare perché semplicemente “oltre”. “Mezzanine” era stato un disco spiccatamente rock e chitarristico, un’altra roba rispetto a quei “Blue Lines” (1991) e “Protection” (1994) in cui l’elettronica, il reggae, la dub e l’hip hop si mischiavano in un pastone allucinogeno e seducente, un disco definitivo che aveva proiettato a giusto titolo i Massive Attack verso lo status di intoccabili.
Eppure succede che all’interno del collettivo − perché questo erano sempre stati i Massive Attack − non tutti avevano assorbito le divagazioni rock di “Mezzanine” volute da Robert Del Naja aka 3D, così Andrew Vowles aka Mushroom fa un passo indietro. E succede che Del Naja si ritrova solo − o meglio: senza le compagnie fisse avute fino a quel momento, visto che anche Grant Marshall aka Daddy G si prende un periodo di pausa dettato dalla paternità. Succede anche che nel mentre il mondo cambia alla velocità della luce, le ansie da millenniun bug crescono a dismisura, il mondo va verso direzioni pericolose e la tecnologia inizia a mostrare il suo lato più terrificante e disumanizzante. E Robert Del Naja è solo, adesso è lui i Massive Attack − o meglio: sceglie di continuare a essere lui i Massive Attack. Il risultato di questo contesto è che per arrivare a un successore di “Mezzanine” Del Naja ci mette un bel po’ di tempo, tra prove e incisioni gettate alle ortiche e cambi di rotta tanto estemporanei quanto friabili nella loro sostanza.
100th Window arriva il 10 Febbraio del 2003 e inevitabilmente ha poco in comune col suo predecessore, ma quel poco è sostanziale nel mantenimento della barra dritta: il buio del disco del ’98 è ancora qui, più opprimente che mai, più giustificato che mai, dal momento che passa quella band/non band (a coadiuvare Del Naja c’è, oltre alla solita pletora di collaboratori, il solo produttore Neil Davidge), dal momento storico di cui si ritrovano a dare testimonianza. Ma per il resto “100th Window” è un disco senza colpi di coda né sfuriate, alienante per concetto e terribilmente narcolettico nel suo incedere, per il quale Del Naja si affida a loop ossessivi di un’elettronica da fine del mondo che prendono in toto il posto delle chitarre di “Mezzanine”.
Il manichino di vetro che va in frantumi sulla copertina del disco è la miglior rappresentazione visiva possibile di ciò che “100th Window” vuole trasmettere: l’uomo moderno spezzato da ciò che gli sta intorno, dall’assenza di contatto umano, dai sentimenti che sfumano fino a diventare aliti di vento, da una vita sociale ridotta al minimo, dall’alienazione data dagli schermi e dai microchip dei computer, da un isolamento non soltanto fisico ma anche e soprattutto emotivo. A contribuire enormemente all’espressionismo sonoro dell’album c’è la voce di Sinéad O’Connor, già da qualche tempo in orbita Massive Attack, cui vengono affidate What Your Soul Sings, Special Cases e A Prayer For England, fulcro dell’album cui l’artista irlandese regala tutta la drammaticità tipica delle sue interpretazioni, perfettamente in linea col senso di straniamento voluto e cercato per l’intero lavoro.
Lontano dal totalizzante impatto di “Mezzanine” e dai groove caldi di “Blue Lines” e “Protection”, bianco come un bagliore nucleare e asettico come una sala operatoria pronta all’intervento, “100th Window” ha avuto il merito di mantenere in vita il progetto diretto da Robert Del Naja, traslandolo con successo in un inizio di nuovo millennio pieno zeppo di contraddizioni sociali, politiche e tecnologiche. E lo ha fatto alla maniera dei Massive Attack, con ricerca e coerenza, adesione al contemporaneo e una irripetibile proiezione futura.