Nel 1993 i Pearl Jam erano reduci da quella doppietta formidabile che erano stati “Ten” (1991) e “Vs.” (1993), ma il loro chitarrista solista non se la passava affatto bene. Mike McCready, personalità eclettica e propensione assoluta ai vizi, aveva raggiunto il culmine delle sue dipendenze: così, mentre lavora insieme alla band a “Vitalogy” (che sarebbe uscito l’anno seguente), decide di rinchiudersi in una clinica riabilitativa di Minneapolis per provare a recuperare una situazione psicofisica che si stava facendo molto, molto, troppo complicata. In quella clinica McCready incontra il bassista John Baker Saunders e instaura con lui un rapporto d’amicizia e condivisione che si porteranno anche fuori. E una volta fuori, due musicisti non potevano che decidere di fare insieme ciò che facevano già con altri: suonare. Nasce qui il progetto Mad Season.
Fatto rientro a Seattle, quartier generale di entrambi, McCready e Saunders chiamano a raccolta Barrett Martin, batterista degli Screaming Trees, e iniziano a comporre nuovo materiale. Manca la voce e i tre ne trovano non una ma ben due, tra le migliori in circolazione: la prima è un amico di McCready, quel Layne Staley frontman degli Alice In Chains che capiva come pochi altri quanto le dipendenze potessero gettarti in fondo a un buco nero e buio; e poi Mark Lanegan, collega di Martin negli Screaming Trees. McCready è chiaro con Staley: per far parte di quel progetto occorreva assolutamente rimanere puliti, né lui né Saunders potevano permettersi di gettare alle ortiche il tempo trascorso in clinica. Staley accetta, non era certo la prima volta che provava a rimettersi in sesto, l’avrebbe fatto ancora anche negli anni a venire…
Nell’inverno del ’94 la neonata band si chiude per una decina di giorni ai Bad Animals Studios di Seattle sotto la supervisione del produttore Brett Eliason, anch’egli reclutato da McCready. Above prende vita così, estemporaneamente, un po’ come una seduta psicanalitica in cui i musicisti coinvolti provano a scacciare almeno parte di quei demoni che non smettevano di tormentarli. McCready imbastisce le linee dei pezzi con le sue corde soniche, mentre Martin e Saunders danno fondo alla loro formazione seventies. Staley invece scrive tutti i testi e, come nel caso dei Temple Of The Dog, che qualche anno prima erano serviti a Chris Cornell e i Pearl Jam (tra cui ovviamente lo stesso McCready) a elaborare il lutto per la scomparsa dell’amico Andy Wood a causa dell’eroina, anche su Staley e i Mad Season aleggia il medesimo spettro tossico che avrebbe raso al suolo il talento di un’intera generazione.
Ad aprire il disco ci pensa Wake Up, una ballata decadente scritta da McCready e Saunders prima dell’arrivo degli altri e resa immortale dalle parole e dall’interpretazione dolente di Staley, che nella conclusiva All Alone fa il peggiore dei presagi possibili. I’m Above e Long Gone Day sono i due episodi in cui compare Lanegan (una manciata di altre registrazioni in cui è protagonista vedranno la luce solo nella ristampa deluxe del 2013), che duetta con Staley segnando la storia dell’album e degli interi ’90, così come qualche anno prima avevano fatto Cornell e Vedder con “Hunger Strike”. Le vene blues portate da Saunders − certamente il meno in vista tra i musicisti coinvolti − rendono l’intero “Above”, e nello specifico brani come la centrale Artifical Red o I Don’t Know Anything, qualcosa di diverso da quanto s’era visto fino a quel momento dalle parti di Seattle.
Molto più scuri dei Pearl Jam, decisamente meno heavy degli Alice In Chains, i Mad Season con il loro figlio unico “Above” (i progetti per un secondo album, affidato prevalentemente a Lanegan, falliranno ripetutamente) appongono il sigillo su una stagione irripetibile che stava tristemente volgendo a termine: Kurt Cobain era morto l’anno prima e il grunge ne aveva subito il pesante contraccolpo artistico e morale, ma da lì a poco anche John Baker Saunders (nel 1999) e Layne Staley (nel 2002) avrebbero perso la loro battaglia contro lo spettro tossico che avevano provato ad esorcizzare con “Above”.