Quando uscì, nell’Ottobre del 2000, “Kid A” si rivelò essere non soltanto il quarto album dei Radiohead, non soltanto il loro ingresso in grande stile in quel nuovo millennio di paure digitali e irrequietudini sintetiche teorizzate e formalizzate. A posteriori (perché sul momento i giudizi si divisero) “Kid A” fu un vero e proprio stargate, una porta che permise ai Radiohead − e con loro a un’intera concezione “classica” di rock − di entrare in un’altra dimensione, di evolversi con un cambio di passo pratico e fattuale, di lasciarsi alle spalle gli schemi e le rigidità di un certo modo di fare e intendere il rock tipico dei Novanta (e anche dei decenni precedenti) per avventurarsi in nuove possibili strade. Loro avevano già iniziato a farlo nel ’97 con “OK Computer”, ma fu solo con il “bambino” che la trasformazione in una band “altra” si concretizzò definitivamente.
Amnesiac all’inizio non avrebbe neanche dovuto esserci, nel senso che si trattava di brani messi a punto durante le stesse lunghissime session che avevano dato vita a “Kid A”, poi lasciati da parte perché no, un doppio disco troppo annacquato non avrebbe colto nel segno come i concisi e stordenti trequarti d’ora dell’album del 2000. Così, messa a punto la tracklist e l’uscita di “Kid A”, restavano quei brani − le avremmo chiamate b-side, se si fosse trattato di un’altra band − e la scelta fu quella di farne un altro disco a stretto giro, una sorta di fratellino gemello del “bambino”. E fu quindi dopo una gestazione di otto mesi esatti che arrivò anche “Amnesiac”.
Il filo conduttore tematico di “Kid A”, ovvero l’alienazione dell’uomo, la tecnologia come possibilità di progresso che rischia di trasformarsi in regresso, il computer amico/nemico, si ritrova − o meglio, si riafferma − anche in “Amnesiac” già con Pyramid Song, singolo/video che anticipa di poco l’album, con quel pianoforte che da lì in poi diventerà poco a poco un vero marchio di fabbrica dei nuovi Radiohead (che, per la cronaca, hanno già messo più carne sul fuoco dei vecchi). Gli archi, l’arrangiamento stesso del pezzo, evidenziano davvero in modo incisivo la direzione su cui hanno deciso di incanalarsi Thom Yorke e soci.
La claustrofobia di Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box non sta solo nel titolo, è la stessa di Like Spinning Plates, dell’ovattato incedere di You And Whose Army? o di quella sorta di straniante soundtrack da videogame che è Pulk/Pull Revolving Doors, il fulcro − forse l’unico vero minimo comune multiplo del disco − su cui ruota l’intero “Amnesiac” anche in quei passaggi che hanno le sembianze di un’apertura. È il caso delle derive jazzate della ritmica di Pyramid Song, di Dollars And Cents, di Knives Out e della conclusiva Life In A Glasshouse (con tanto di fiati in bella mostra), oppure la chitarra nuovamente protagonista nella musica dei Radiohead come in I Might Be Wrong (più tipica) e Hunting Bears (più atipica).
Invece Morning Bell, riarrangiata rispetto all’originale contenuta in “Kid A” (che poi, siamo così sicuri che la primogenita fosse davvero quella?), rappresenta bene quel po’ di distanza che intercorre fra i due dischi, dove questa è affetta da un rallentato lirismo apparentemente analogico che nella prima, invece, era stato sepolto sotto una ritmica incalzante e una pulizia aliena. Ed è questo che per larga parte fa “Amnesiac”, rispondendo alle critiche mosse a “Kid A”, che accusavano i Radiohead di aver flirtato troppo e troppo a lungo con l’elettronica, facendo brillantemente convivere le diverse anime e le differenti ispirazioni dei cinque inglesi.
Ribattezzato spesso con un po’ di cattiveria e superficialità come “Kid B”, considerato a volte più una riuscita raccolta di scarti (ad avercene…) che un album riflettente luce propria, “Amnesiac” è chiaramente un lavoro per sua natura meno omogeneo rispetto al predecessore, si fa apprezzare più nei singoli estratti che nell’ascolto integrale, ma conferma in maniera tutt’altro che secondaria il percorso intrapreso a inizio millennio dai Radiohead, quello che in meno di un anno, con “Kid A” prima e “Amnesiac” subito dopo, li ha investiti del ruolo di “faro” per centinaia di altre esperienze a loro più o meno affini.