Nonostante un ottimo esordio come “Portrait Of An American Family” (1994), i Marilyn Manson avevano raggiunto un certo livello di popolarità solo con la pubblicazione dell’EP “Smells Like Children” (1995). E ciò avvenne grazie soprattutto − per non dire esclusivamente − all’heavy rotation riservata al videoclip di “Sweet Dreams (Are Made Of This)”, cover degli Eurythmics contenuta nell’EP che riuscì a sdoganare in ambito mainstream l’immagine di una band capitanata da un personaggio, Brian Warner, decisamente controverso e inviso a larga fetta di pubblico. Di motivi per questa diffusa avversione non ne mancavano affatto, in primis l’immagine provocatoria di ciascun membro della band, poi i loro moniker mutuati dall’incrocio tra una star dello show business e un serial killer, per non parlare dei contenuti violenti, pornografici e malati dei testi di Warner. Trent Reznor, che aveva già messo mano sulle prime due uscite della band, contrattualizzandoli con la sua Nothing Records e portandoli in tour in apertura per i Nine Inch Nails, credeva fermamente nel progetto di Warner tanto da dargli ancora un’altra chance discografica nella speranza di cavalcare l’onda del successo di “Sweet Dreams”. Per sua fortuna o sfortuna, a seconda del punto di vista, le cose andarono ben oltre.
Nella prima metà del 1996 Manson e i suoi si ritrovarono così insieme a Reznor, Sean Beaven e Dave Ogilvie ai Nothing Studios di New Orleans per lavorare al nuovo album della band. Il disco già nella mente di Warner doveva rappresentare un concept, ideale primo capitolo di una trilogia marcia e decadente fondata sulle visioni avute da Warner in sogno di un mondo devastato dal male, trasposte nei testi e nella musica della band. Ciò che non era preventivato era invece il contesto in cui la band e i vari collaboratori si sarebbero trovati a operare: droghe varie ed eventuali come se piovesse, autolesionismo, atti osceni in luogo pubblico, alterchi all’interno dello stesso gruppo di lavoro, privazione del sonno, assunzione di psicofarmaci e chi più ne ha più ne metta, un campionario di eccessi che contribuì in modo determinante alle atmosfere finite poi sul disco.
Antichrist Superstar, emblematico già dall’iconico titolo, arriva come un pugno nello stomaco sul mercato discografico: il sound della band rispetto al disco d’esordio si fa se possibile ancora più violento e stratificato, orientandosi più su caratteri metal che su quelli alternative rock che avevano contraddistinto “Portrait Of An American Family”. Musicalmente i punti di riferimento di Manson restano sempre gli stessi, ovvero numi tutelari come Alice Cooper e Black Sabbath ma soprattutto i maestri dell’industrial Ministry e gli stessi Nine Inch Nails: non a caso, infatti, oltre a Reznor che produce e sferraglia qualche chitarra qua e là, alle registrazioni prendono parte anche Danny Lohner e Chris Vrenna, anche loro in orbita Reznor/NIN. Il sound è quello ma meno asciutto, impastato di fango e perversione dalla prima all’ultima nota, col granito del basso di Twiggy Ramirez (autore di gran parte delle musiche) e i loop di Madonna Wayne Gacy a fare il buono e il cattivo tempo insieme alle linee di chitarra incastrate fino a confondersi.
Ma è ovviamente l’aspetto concettuale quello preponderante: il racconto del Verme, il personaggio protagonista di “Antichrist Superstar” (così come dell’intera trilogia che sarà poi completata da “Mechanical Animals” del 1998 e “Holy Wood” del 2000) e trasposizione iconografica dello stesso Marilyn Manson, si dipana in una spirale che porta dritta negli inferi, dove il Verme/Manson trasforma la frustrazione del non essere accettato dalla società, da quella “bella gente” che inzuppa le proprie vite nel perbenismo, in rabbia distruttiva da fine del mondo, scagliandogli contro una lunga sequenza di dardi infuocati. Little Horn è un devastante picco di violenza sonora e verbale, Angel With The Scabbed Wings straccia l’ugola di un Manson mai così avvelenato nello sputare sentenze, la title track è anthem d’impatto e manifesto programmatico del Manson-pensiero (dal vivo sarà poi il momento delle ormai leggendarie bibbie fatte a brandelli dalla cima di un podio, giusto per porre l’accento sull’avversione/critica di Manson per il cristianesimo), fino ad arrivare a Man That You Fear dove si compie la definitiva metamorfosi in un mostro che ha ottenuto ciò che voleva distruggendo tutto ciò che aveva intorno.
Ogni passaggio del disco, anche quelli apparentemente meno incisivi come Cryptorchid o Wormboy, è in realtà propedeutico all’evoluzione del Verme. Un percorso affiancato in parallelo dal lavoro sull’estetica del disco (tra esoterismo, kabala e chissà cos’altro) e dei videoclip estratti, in modo particolare quello di The Beautiful People, diretto dalla regista italiana Floria Sigismondi (che si occuperà anche di Tourniquet, probabilmente il brano con la struttura più classica dell’intero album), che gioca tutto sull’ambientazione macabra di un laboratorio lercio tra protesi e vecchi aggeggi medicali, un feticcio dello stesso Manson che contribuirà alla riuscita disturbante del pezzo. Come si diceva in apertura, l’impatto di “Antichrist Superstar” andò ben oltre le aspettative di Trent Reznor (ma immaginiamo non oltre quelle dell’ego smisurato di Brian Warner), rivelandosi un crack dell’anno in cui uscì e degli interi anni ’90, attirando a sé e su Warner le invettive non solo della critica meno incline a comprendere la natura del disco ma anche delle frange più conservatrici della politica americana.