All’inizio del nuovo millennio i Radiohead erano una band controversa, forse mal interpretata. I precedenti gemelli “Kid A” (2000) e “Amnesiac” (2001) avevano stravolto il sound con il quale la band si era fatta conoscere al mondo, in favore di una sperimentazione elettronica e strumentale. Questa scelta si rivelò vincente e portò il quintetto di Oxford ad allargare il proprio bacino di ascoltatori. Hail To The Thief sancì così la definitiva sentenza, quando in molti si aspettavano un ritorno alle origini: i Radiohead non tornano mai indietro.
Nel 2003 l’Occidente era in lenta ripresa dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001 e la successiva guerra in Afghanistan. Queste prime avvisaglie di un mondo distopico alle porte erano confermate dagli slogan diffusi dai mass media, che avevano portato alle politiche neoliberiste del premier inglese Tony Blair e alla seconda guerra del Golfo promossa dalla presidenza Bush attraverso il (rivelatosi) falso pretesto delle armi di distruzione di massa. Tutto questo per i Radiohead, da sempre maestri nel descrivere le caratteristiche peggiori del mondo in cui viviamo, non fu altro che fonte di ispirazione ed è proprio da tali slogan che prende vita il collage in copertina, dove parole come “Paura”, “Dio” e “TV” sono ben in mostra.
“Hail To The Thief” parte con 2+2=5, probabilmente uno dei migliori pezzi del gruppo, caratterizzato da cambi di tempo repentini e da un testo di ispirazione orwelliana in cui Thom Yorke avvisa l’ascoltatore che il motivo principale per cui si è ritrovato in una situazione disastrosa è perché non ha prestato attenzione. Sit Down. Stand Up, assieme a Backdrifts e The Gloaming, vedono il massiccio utilizzo dell’elettronica, dando un senso di continuità con i precedenti due dischi: la prima è una ballata desolata sostenuta da una drum machine che pian piano si trasforma fino a dare vita ad un caos elettronico nel finale, a rappresentare forse le fauci dell’inferno di cui parla Thom nel testo; la seconda è basata su frammenti musicali in reverse e una batteria elettronica molto ritmata, che la band farà propria nei successivi album; la terza invece vede la sovrapposizione delle voci di Thom e rappresenta la traccia più strana dell’intero lotto.
Sail To The Moon è una splendida ballata in cui pianoforte e chitarra si fondono alla perfezione, caratterizzata da continui cambi di tempo e accordi. Sempre sul connubio pianoforte-chitarra si appoggia We Suck Young Blood, nenia dal sapore jazz. Go To Sleep è un pezzo dal sapore folk e con una ritmica secca e cadenzata, che non avrebbe sfigurato in “The Bends” (1995), mentre Where I End And You Begin si basa su un giro di basso ripetuto allo sfinimento che entra in testa e la porta ad essere una delle canzoni più riuscite della release.
A questa si aggiunge There There, singolo anticipatore dell’album e la canzone più lunga del lotto: è un pezzo tribale dalla struttura semplice basata su pochi accordi, in cui Ed O’Brien e Jonny Greenwood sostengono Phil Selway suonando le percussioni. Notevole il finale in cui si susseguono I Will, una breve e semplice ballata voce e chitarra, Myxomatosis, il pezzo più aggressivo dell’album, con chitarre ultra-distorte e due batterie sovrapposte, e A Wolf At The Door, un brano swingato e reso unico dallo strano spoken word di Thom Yorke lungo tutta la durata del brano.
“Hail To The Thief” è fino a questo momento l’album più lungo della band, quasi un’ora la sua durata, e probabilmente anche il più completo, un lavoro in grado di riassumere quello che i Radiohead erano prima e quello che col senno di poi sarebbero stati in seguito. L’ennesimo capolavoro nella discografia di una delle band più importanti a cavallo fra anni ’90 e ‘00, in grado di trasformarsi e di trasformare persino il più importante dei “capi” – il chief di “Hail To The Chief”, l’inno del Presidente degli Stati Uniti d’America da cui i Radiohead hanno mutuato il titolo del disco, con tutto ciò che ne consegue in termini concettuali – in un “ladro” (thief) qualsiasi, in un truffatore della peggior specie.