Difficile dire se i Mogwai siano stati o meno coloro che, nella seconda metà degli anni Novanta, declinarono il post rock per come abbiamo imparato a conoscerlo, ovvero musica prevalentemente strumentale piena zeppa di sferzate chitarristiche. Sicuro è che proprio in quel lustro gli scozzesi ne hanno rappresentato appieno l’essenza con due dischi, “Young Team” (1997) e “Come On Die Young” (1999), che possono essere considerati il decalogo sonoro di quello specifico modo di fare musica. Solo che a Stuart Braithwaite e soci quell’etichetta appioppatagli dalla critica iniziò presto a stare stretta, loro che avevano provato a destrutturare il rock proprio per fuggire da definizioni e inquadramenti di sorta, loro che avevano quasi azzerato le parole per evitare interpretazioni e fraintendimenti.
Il risultato è che i Mogwai inaugurano il nuovo millennio con Rock Action, un lavoro che dei predecessori porta un DNA ampiamente rivisto e modificato in laboratorio. Non c’è più un Satana di cui avere paura, non c’è più il cadavere del rock da esorcizzare, così i Mogwai sfornano otto tracce (compresi due brevissimi intermezzi, O I Sleep e Robot Chant) che sovvertono equilibri che in poco tempo sembravano già incisi nella pietra. Gli altri sei brani di “Rock Action” sono per l’appunto brani, nel senso (quasi) più classico del termine. I climax alternati del recente passato non si vedono più, così come la debordante violenza strumentale lascia spazio a dinamiche più riflessive e sognanti.
Take Me Somewhere Nice è l’emblema del disco, ma è soprattutto il primo vero passo dei Mogwai verso un cambio di rotta che, a grandi linee, li accompagnerà costantemente da quel momento in poi. Archi, strumentazione acustica, flebili inserti elettronici che tengono le fila di tutto e la voce dell’amico David Pajo (uno che con gli Slint era stato probabilmente il padre putativo di ciò che gli scozzesi avevano sperimentato fino a quel momento), rendono il pezzo una ballata in chiaroscuro da pelle d’oca, un vero classico istantaneo. Stessa falsariga su cui si sviluppa Dial : Revenge (in cui invece i sussurri sono di Gruff Rhys dei Super Furry Animals), mentre è dalle parti di You Don’t Know Jesus e 2 Rights Make 1 Wrong (rispettivamente otto e oltre nove minuti di serrate progressioni strumentali e sbuffi elettronici) che i Mogwai infilzano il gancio del passato, ma con un’irruenza sonora pressoché inesistente. Sottrazione mica da poco.
“Rock Action” si adagia su crinali che i Mogwai non avevano mai voluto esplorare ma che gli diventeranno parecchio familiari, quasi naturali oseremmo dire, spingendoli in una direzione fatta di composizioni più concise e strutture più melodiche, in cui la voce diventa strumento insieme agli altri e non più un disturbo in sottofondo. Uno di quei rischiosi album di passaggio che possono segnare in positivo o in negativo la discografia di una band… nel loro caso, ciò che è venuto dopo parla abbondantemente da sé.